di Vincenzo Serra (Furisi e braccianti in una foto degli anni Cinquanta nel Sud Italia di Federico Patellani - Archivio Regione Lombardia)
"U furisu" era un lavoratore agricolo particolare presente nelle nostre campagne fino alla prima metà degli
anni Sessanta allorquando questa attivià venne spazzata via dal travolgente fenomeno dell'emigrazione di massa
verso i vicini Paesi europei. "U furisu" era un garzone di campagna a tempo pieno, di genere esclusivamente maschile,
che lasciava la propria famiglia e si trasferiva in casa del datore di lavoro per essere a disposizione del padrone che gli avrebbe
offerto in cambio vitto, alloggio ed un compenso in prodotti della terra.
Il giovane si adeguava all'andamento, non solo lavorativo, della famiglia padronale vivendo a stretto contatto con i suoi componenti, con i quali condivideva i momenti buoni e i momenti cattivi, la buona sorte e la cattiva sorte e spesso veniva a conoscenza anche di segreti o viveva rapporti di amicizia con figli suoi coetanei. Nonostante tutto, però, restava un estraneo e questa estraneità era sancita da due punti fermi: egli non alloggiava mai nei dormitori padronali e non siedeva mai, o eccezionalmente quando veniva invitato, a tavola con la famiglia dei padroni. Il contratto, un accordo sulla parola e secondo usi ben consolidati -di solito annuale ma a volte anche stagionale- prevedeva un corrispettivo, riferito all'intero periodo contrattuale, in prodotti agricoli, solitamente grano, che poteva essere integrato da legumi, ortaggi, ma raramente con olio. Trattandosi di contratto a tempo era consuetudine che in caso di malattie passeggere come influenze, raffreddori, febbri o altri malesseri stagionali "du furisu", nel periodo contrattuale, il padrone continuava a offrirgli vitto, alloggio e l'intera retribuzione concordata (non posseggo dati realtivi a casi di malttia cronica, infettiva o di lunga degenza). Sempre per consuetudine era concesso "aru furisu" la possibilità di rientrare alcune volte -in genere una volta al mese- in famiglia per il cambio degli indumenti e un saluto ai propri cari. "U furisatu" (mondo dei "furisi") cresceva e si alimentava fra le famiglie che vivevano alla giornata (i jurnatarji), ossia coloro che lavoravano su chiamata per una prestazione giornaliera, come braccianti, manovali, boscaioli. A queste categorie spesso si aggiungevano anche minuscoli proprietari, i quali dai loro piccoli possedimenti non riuscivano a ricavare il necessario e si vedevano costretti ad integrare il prodotto dei loro poderi con prestazioni d'opera occasionali. Era in questi ambienti che il "furisato"reclutava il personale disponibile all'attività di "furisu" presso proprietari terrieri e affittuari grandi o medi ma, con assunzioni saltuarie e mai di durata superiore all'anno, anche presso piccoli proprietari. Il ruolo "du furisu" era quello di un subordinato al seguito del padrone del quale eseguiva le decisioni nei tempi e nei modi richiesti. Per questo lavoratore non esistevano forme di tutela o assicurative, così che sia la durata del lavoro e del riposo, sia l'organizzazione e il sistema del lavorare stesso, come pure il trattamento del vitto e dell'alloggio, dipendevano solo dalla sensibilità del datore di lavoro. In difesa del lavoratore si invocavano e si pigliavano a riferimento generici principi religiosi, morali e sociali con un occhio alla consuetudine. Questo avrebbe generato mille forme di trattamento all'interno della categoria senza la forza del controllo; consuetudine e passaparola crearono di fatto una uniformità di trattamento. Fra questi garzoni agricoli a tempo pieno era operante una larga fascia di ragazzi di età compresa tra i 13/14 anni e i 16/17 anni, in particolare presso i piccoli proprietari; a questi ragazzi, di solito, venivano assegnati lavori dispersivi come pascolare, abbeverare e riportare gli animali all'ovile, attingere acqua al pozzo o alla fontanella (non era ancora giunta l'acqua pubblica fra le mura domestiche), controllare l'andamento dell'orto ed era importante anche il servizio di scambiarsi informazioni (nelle campagne non eisteva il telofono e per comunicare era necessario spostarsi di persona o dare questo incarico ad altri come i ragazzi). In questo modo il padrone, liberato dai lacciuoli di questi impegni dispersivi, aveva la possibilità di dedicarsi prevalentemente ai lavori più impegnativi e di maggiore responsabilità. Di fronte a un utilizzo così masiccio di minorenni viene spontaneo domandarsi che fine se esistesse una qualche forma di tutela dei minori. La risposta la troviamo nella convinzione corrente che dettava l'impegno comune di garantire al minore, a seconda della possibilità della famiglia, cibo, vestiti, focolare e attenzione alla salute. L'educazione riguardava esclusivamente il rispetto dell'adulto e del vecchio in particolare. Altro impegno verso il minore era l'avviamento al lavoro. La strada più sicura per l'avviamento al lavoro era proprio quella della pratica quotidiana, cioè vivere personalmente l'attività lavorativa in tutta la sua crudezza. Per questo motivo nessuno si scandalizzava o si muoveva a pietà nel vedere un minore dedito al lavoro. Nello stesso modo nessuno faceva drammi se il padrone o la padrona desse dei ceffoni al proprio "furisu"; anche questo era contemplato dalla convinzione che una sana educazione era rafforzata e consolidata dal ricorso alle punizioni corporali materiali. Il mondo degli educatori partiva dai genitori per allargarsi a nonni, zii, fratelli maggiori, maestri e, nel caso dei "furisi", ai datori di lavoro. Questa cospicua presenza di minori trovava ragione di essere anche nel fatto che i ragazzi da adulti avrebbero abbandonato questa forma di lavoro. Il passaggio al mondo adulto era universalmente fissato dal servizio militare (allora obbligatorio al compimento del 21° anno di età e poteva avere una durata anche di 18 mesi). Al rientro dal medesimo servizio di leva erano in pochi ad accettare l'attivita di "furisu" e per i pochi disponibili il "furisato" assumeva forme e trattamenti diversi da quelli vissuti da minori. Si partiva dall'adeguamento del compenso alla durata contrattuale (spesso senza scadenze) e si creava un clima di fiducia ed un sentimento di appartenenza che generava un'intesa spontanea fra le parti che accordava "aru furisu" un margine di intrapendenza e di responsabilit". Non sono mancati casi in cui un giovane sposava una sorella dei padroni o, addirittura, una loro figlia, come pure nascite di forti amicizie fra i padroni e i "furisi", mantenuti anche dopo il "furisato". A questi casi positivi facevano da contraltare tanti altri casi che si trascinavano per necessità e mancanza di alternative, vissuti fra malumuri e rancori misti a preghiere e speranze per la fine di quelle condizioni. Milano, 16 dicembre 2024 (pubblicato il 14.1.2025) Vincenzo Serra Vincenzo Serra è nato a San Marco Argentano, dove ha studiato presso il locale Istituto per Ragionieri. I suoi racconti sono puntuali relazioni sulla vita negli anni Cinquanta nelle borgate rurali, frutto di conoscenze dirette e di memorie tramandate da persone più anziane, utili a chi vuole conoscere aspetti culturali e socio-economico a volte sconosciuti. Altri racconti di Vincenzo Serra: I Sanpaulari ... - |
LA STORIA LE STORIE
|
RACCONTA LA TUA STORIA
info@lastorialestorie.it
|