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L'ANTISTORIA


TRENTA SCHIFATI: UN ACQUISTO O UN RISARCIMENTO?


Mi rendo conto che un ennesimo intervento su un documento discusso in tantissime occasioni finisca per diventare noioso, ma il fatto di aver 'scoperto' qualcosa su cui non avevo posto la dovuta attenzione, mi spinge a parlarne per l'ennesima volta.
Mi riferisco alle Carte Latine di Alessandro Pratesi e in particolare alla dedicazione di Santa Maria della Matina e alla donazione all'abbazia di vaste proprietà da parte di Roberto e della moglie Sichelgaita.

In una precedente pagina dell'antistoria (o in più di una) mi stupivo per il fatto che tra le donazioni del Guiscardo all'abate Adelardo vi fossero ventotto persone, che egli possedeva, ovvero i 'rustici del vico Prato'.
Il mio interesse, allora, fu attratto dai loro nomi e dall'interrogativo se fossero uomini liberi, servi o prigionieri.
Attratto da questa curiosità avevo cercato altrove quelle risposte che le Carte Latine non contenevano e nel corso della ricerca mi sono imbattuto in un caso analogo, risalente a qualche anno prima del nostro documento, esattamente al 1062, riguardante una donazione all'igumeno Gérasimos del monastero greco di San Pancrazio da parte di 'Guillame Capriol' signore di Briatico 1.
Ho appreso che esistevano gli elenchi nominativi di persone appartenenti all'autorità sovrana detti 'katonoma', e coloro che vi erano iscritti, erano definiti ' anthropôi ', uomini. Nel momento che costoro per concessione del sovrano passavano sotto un signore, laico o ecclesiastico, diventavano ' bellanoi ', ' villani ', e il nuovo proprietario provvedeva a compilarsi il proprio ' katonoma '.
C'è di più: quando un villano moriva senza eredi, le sue proprietà passavano al signore ed erano inamovibili 2.
Si tratta, dunque, di uno statuto bizantino che, nel caso della Matina, venne applicato ai rustici di Prato e ai loro beni posseduti a Malvito o, quanto meno, ne compaiono taluni aspetti.
Infatti, il Pratesi riferendosi alla 'carta' con i nomi dei 'rustici', citata nel documento di donazione, scrive 'si desidera', in quanto mancante. Quella carta era il katonoma, ovvero il pubblico elenco che accompagnava uomini, villani o rustici nei loro 'passaggi di proprietà'.
Ho pensato, allora, di andarmi a rileggere per bene quella 'donazione' per vedere se ci fossero affinità con il caso di Briatico. E per capire se e come il Guiscardo detenesse gli uomini di Prato, mi sono soffermato sul pagamento che egli fece al vescovo di Malvito Lorenzo.
Avevo sempre pensato che si trattasse del pagamento generico di diritti che il vescovo vantava su Prato e Matina, ma da una lettura più attenta risultava che dietro questi diritti c'era stato fino ad allora il pieno e libero godimento di beni, persone incluse, da parte del Guiscardo.

Riflettendo sul pagamento dei trenta schifati al vescovo di Malvito e su due espressioni contenute nel documento mi sono reso conto che Roberto acquistava dal vescovo di Malvito persone e cose di cui non era proprietario, ma delle quali aveva la piena e assoluta disponibilità da molti anni!
La prima perplessità sulla reale e legittima proprietà mi è venuta leggendo all'inizio del documento che l'abate Adelardo aveva costruito il monastero che accettava, o dicendolo alla maniera latina in cui fu scritto, accettato il monastero lo costruì. Nel documento della dedicazione la questione è allargata ai donanti: accettato il monastero lo costruì con l'aiuto degli stessi Roberto e Sichelgaita. Comunque vogliamo interpretarlo il testo dice che il monastero era già bello e fatto quando Roberto lo comprò per farne dono all'abate Adelardo 3. L'altra espressione, "quos ipse tenebat" si riferisce come ho già detto ai 'rustici' di Prato, già in mano sua, ma ancora non di sua proprietà.
Ricordandomi che negli atti notarili è spesso specificata la doppia voce, tenet et possidet, ho riflettuto sulla sostanziale differenza tra tenere e possedere, che ad una prima lettura mi era sfuggita.
Di conseguenza mi sono chiesto: come poteva l'abate Adelardo aver costruito un monastero, anche se con l'aiuto del Guiscardo e di Sichelgaita, se nessuno di loro era ancora proprietario dell'area su cui era sorto e, dunque, senza averne alcun diritto?
Partendo, dunque, dal fatto che il duca aveva già la piena disponibilità di uomini e cose, il pagamento dei beni detenuti era un acquisto del momento? o piuttosto un pagamento a posteriori per legittimarne il possesso?
Per capire l'intera questione sono andato a rileggermi con maggiore attenzione il documento in cui si parla del pagamento di trenta schifati -peraltro una somma davvero irrisoria- alla ricerca di una sua motivazione.
Perché Roberto pagò quella somma? Stando al documento, il motivo del versamento al vescovo di Malvito di trenta schifati, nello stesso giorno in cui si dedicava la chiesa a Santa Maria della Matina, da loro fatta costruire dalle fondamenta, risiede nel timore di Dio, il timore della dannazione eterna 4.
Il documento su questo è chiarissimo: Roberto e la duchessa sua moglie comprano i beni che furono del Vescovo, e per la salvezza delle loro anime li donano al monastero. Nelle varie 'vulgate' si parla, invece, di generici diritti 'vantati' dal vescovo di Malvito su Matina e Prato, senza mai specificare che tali beni gli appartenevano di diritto nella loro interezza 5.

Il vescovo di Malvito è presente al momento della cerimonia del 31 marzo 1065: ottiene quei trenta schifati come risarcimento di una spogliazione pressocchè totale avvenuta nel corso degli anni. Debbo ritenere che tra i beni non vi fossero solo Prato con tutti gli abitanti e le loro eredità di Malvito (sicut ipse dux tenebat), la Matina e le terre intorno, ma i mulini, i territori estesi fino al mare e, nel 'castello' di San Marco, la chiesa e il casale di Santa Venere con vigne, terre e foreste 6.

Che cosa era accaduto? Che Roberto deteneva da tempo l'intero territorio, ma non ne aveva il legittimo possesso. Non è un mistero che dopo che il fratello gli 'consegnò' la Calabria, tutto il territorio fosse a sua completa disposizione, nel senso che poteva depredarlo al bisogno. Gli mancavano, tuttavia, le ricchezze possedute dalle varie città, che sottometterà o costringerà a scendere a patti, ma le terre nei fatti le teneva in mano senza incontrare ostacoli. Che all'inizio ne potesse ricavare solo selvaggina e acqua pura di sorgente, come afferma Amato di Montecassino, è indicativo, quanto meno, di una assoluta libertà di azione.
Le proprietà di Malvito passarono di mano, non sappiamo quando e come, ma a quanto risulta senza coercizione o violenza.

Nonostante si tratti di falsificazioni postume, i documenti sopracitati riguardanti la donazione, sono molto puntuali nell'affermazione della piena titolarità dei beni trasferiti all'abbazia, del legittimo possesso dei donanti (Roberto e la moglie Sichelgaita), mediante regolare acquisto dall'originario proprietario (il vescovo di Malvito). Per quanto riguarda i beni realizzati dai donanti, chiesa e due mulini, o dall'abate Adelardo con l'aiuto degli stessi, il trasferimento di proprietà è pacifico. Altrettanto chiari sono i diritti e i privilegi presenti e futuri, nonchè l'unica e diretta dipendenza dal potere papale. Anatemi, maledizioni, scomuniche e risarcimenti fino a cento libre di purissimo oro saranno le pene inflitte a molestatori e trasgressori, da suddividere al cinquanta per cento tra i donanti e loro eredi e il monastero.
E il vescovo di Malvito? Non ho trovato nulla che dica cosa fece Lorenzo con i suoi 140 grammi di oro 7.

San Marco Argentano, 2 agosto 2023

Paolo Chiaselotti

1 Il testo da cui ho tratto le notizie è: "L'héritage byzantin en l'Italie VIII-XII siecle" IV - Habitat et structure agraire Étude réunie par Jean-Marie Martin, Annick Peter Custot et Vivien Prigent - École Français de Rome. - Guillelme Capriol, da me trascritto come compare nel libro, fu fatto signore di Briatico dal conte Ruggero I (Vera Von Falhenhausen 1999 e Ménager 1959, come riferisce la nota n.19).
2 op.cit. "ils doivent rester sous le controle de leur signoire et ne sont pas censée se déplacer. Le payement de leur redevances est la condicion sine qua non de leur maintiene sur place et de la jouissance de leurs biens.".
3 "qui accepto hoc monasterio construxit illud ...". L'ablativo assoluto farebbe supporre che l'abate Adelardo abbia costruito su un monastero esistente.
4 "Idcirco amore et timore ipsius onnipotentis Dei compulsi ..."
5 "emimus a supra scripto Laurentio Malvitano episcopo, ... quantum ibi ad eius episcopatum pertinuit", compriamo dal soprascritto Lorenzo vescovo di Malvito ... quanto ivi appartiene al suo episcopato.
6 Non vi compaiono due proprietà, che compariranno in una conferma della donazione da parte di Ruggero Borsa in data 1100: le chiese di Santo Stefano e di San Nicola, al confine del 'castello' di San Marco, quest'ultima indicata non come cattedrale ma come semplice chiesa.
7 Il prezzo pagato è veramente esiguo se paragonato alla pena pecuniaria inflitta a eventuali 'molestatori' e ai duemila schifati che Roberto lucrò dal rapimento del signore di Bisignano circa quindici anni prima.
Se tale pagamento, come taluni affermano, riguardava solo la Matina e Prato, tutte le altre terre a chi appartenevano?
Se esse non erano proprietà del vescovo di Malvito, significa che il Guiscardo ne aveva la piena titolarità. In base a quale precedente? In virtù del fatto di essere padrone assoluto di territori da lui occupati?
Se così fosse non ci sarebbe stato bisogno di alcun atto, né tantomeno delle puntuali conferme della donazione da parte dei successori Ruggero Borsa, Boemondo, Guglielmo ecc., ma soprattutto avremmo trovata scritta -come nel caso dei 'rustici di Prato- quella postilla (quod ille tenebat) che gliene attribuiva almeno il possesso, se non la proprietà.
Non credo che il Guiscardo, Sichelgaita e l'abate Lorenzo, fossero tanto ingenui da sottovalutare un possibile non riconoscimento di diritti da parte di altri e in particolare dei diretti familiari, di cui conoscevano ambizioni e appetiti.
È lecito, quindi, pensare che tutte le proprietà elencate facessero parte del patrimonio dell'episcopato malvitano, e che l'esigua somma pagata fosse solo un 'pro forma' oppure, nel peggiore dei casi, un'umiliazione (ma non esite prova). Stranamente la sua sottoscrizione, pur essendo presente, non compare in calce al documento.


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