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LA DONAZIONE DI ROBERTO IL GUISCARDO L'argomento di oggi riguarda Roberto il Guiscardo, al quale San Marco Argentano ha conferito il titolo di sovrano rappresentante delle nostre origini, per aver fatto edificare i monumenti più significativi della città: la torre, la cripta del duomo e l'abbazia della Matina. Mentre non esistono documenti espliciti che facciano riferimento all'edificazione dei primi due, esistono invece documenti che riguardano l'abbazia, la sua chiesa e la dedicazione di quest'ultima alla Vergine Maria. Tali documenti sono due pergamene, datate 1066, già appartenute all'archivio della famiglia Aldobrandini e oggi custodite negli Archivi Vaticani. Il contenuto dei documenti fu trascritto e commentato da Alessandro Pratesi nel suo libro Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall'Archivio Aldobrandini pubblicato nel 1958 dalla Biblioteca Apostolica Vaticana nella collana Studi e Testi . Si tratta di testimonianze scritte nell'immediatezza dell'edificazione e sono i primi atti in cui compare il nome del duca normanno e della seconda moglie Sichelgaita. Esse, infatti, precedono l'opera De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius scritta da Goffredo Malaterra , l'Historia Normannorum di Amato di Montecassino, della quale esiste solo una trascrizione francese posteriore di tre secoli e le Gesta Roberti Wiscardi di Guglielmo di Puglia, riguardanti, fatti e imprese compiute in quella regione. I contenuti delle pergamene sono estremamente interessanti per la storia di San Marco Argentano, e non solo, e unici nel loro genere, non essendo riportati in nessun'altra opera riguardante la vita del Guiscardo. Poiché i due documenti fanno riferimento alle donazioni fatte da Roberto e Sichelgaita in redenzione dei propri peccati all'abbazia della Matina e considerato che i loro successori, ad iniziare dai figli Roberto Scalio e Ruggero Borsa, confermano le donazioni e in alcuni casi le ampliano, voglio precisare che Roberto non donò nulla di tutto ciò che è scritto in quelle pergamene redatte nella forma di testamento notarile. Si tratta, infatti, di falsificazioni scritte in forma di originale! Brutta storia, direi quasi dolorosa per chi, come me, avendo letto le trascrizioni del Pratesi, si era illuso di essere partecipe della contemporaneità dell'evento con i fatti e personaggi in esso descritti. Però - talvolta un'avversativa ci soccorre impunemente! - anche i falsi, quando sono d'epoca, hanno qualcosa da dirci e in questo caso, mettendoli a confronto con i documenti posteriori che confermano la volontà del donatore, possiamo estrarne frammenti di verità di pari valore documentale. Le pergamene sono scritte in latino ed entrambe sono datate 1066, ma il Pratesi ha rilevato una incongruità tra la cosiddetta Indizione III e l'anno indicato, retrodatando la datazione di un anno. In quanto alla falsificazione essa avvenne molto posteriormente. Così leggo nella premessa e nelle introduzioni esplicative del Pratesi. Al di là di questi importantissimi aspetti, che richiedono competenze ben lontane dalle mie semplici curiosità, sono essenzialmente due gli argomenti che mi hanno colpito nei due documenti: i nomi dei luoghi e i nomi degli abitanti del vico Prato. Indipendentemente dall'autenticità dei due documenti si tratta di notizie che danno per certa l'esistenza in epoca medievale di abitati prossimi a San Marco, oggi compresi nel suo territorio, che hanno conservato l'originaria denominazione a distanza di tanti secoli. I luoghi citati sono Prato, Santa Venere, Santo Stefano, Sant'Andrea, oltre ovviamente ai luoghi principali, cioè la Matina e San Marco. Non tutti i predetti luoghi sono citati in entrambi i documenti, pur essendo stati redatti lo stesso giorno e pur riguardando entrambi beni di proprietà dell'abbazia. Il primo documento ha per oggetto la dedicazione della chiesa a Santa Maria della Matina. A Roberto e alla moglie Sichelgaita sono attribuiti, in base al documento, sia l'edificazione della chiesa e sia la intitolazione ad espiazione dei propri peccati. Oltre a loro, alla cerimonia sono presenti l'abate Adalardo, che prende possesso dell'abbazia da lui fatta costruire con l'aiuto dei predetti duchi, il vescovo di Malvito Lorenzo, il vescovo di Rapolla Oddone. La dedicazione della chiesa diventa, nel documento, occasione per descrivere le proprietà che Roberto e la moglie danno in beneficenza al monastero: le terre che lo circondano per una vasta estensione che partendo dal fiume Fellone comprende la contrada Sant'Andrea e tre mulini, due fatti costruire dallo stesso abate con l'aiuto dei suoi monaci, l'altro dalla duchessa. Ciò che ha attirato la mia attenzione nel documento è la disinvolta donazione di beni che dal contesto risultano costruiti dallo stesso beneficiario, cioè l'abate, al quale come abbiamo visto viene dato il suo proprio mulino! Anche il monastero risulta costruito dall'abate e dai suoi monaci, se pur con l'aiuto dei duchi! Ma le assurdità non finiscono qui. Subito dopo leggiamo che Roberto e la moglie danno ai monaci tutti gli abitanti di Prato, con le loro proprietà, incluse le eredità che essi possedevano nella terra di Malvito! Insomma regalano persone con tanto di nome, in alcuni con cognome e professione. La maggior parte dei nomi sono di origine bizantina: Iohannes, papa Urso, Dimidius monachus, Basilius Trestarenos, Niceta Magluus, Nicola tabularius, Leo de Mantinia, Thodorus et Iordanis, Stefanus Banbaci, Petrus Gazanensis , per citarne alcuni, tra i quali compare, come si legge, un monaco e un tabulario (censuario o notaio?). Dalla lettura del testo si evince che Roberto possiede sia le terre indicate nei due atti che gli abitanti di Prato. Come spiegare la puntigliosa elencazione delle persone con nomi, appartenenze e relazioni parentali? Non sarebbe bastato che Roberto avesse donato il vico Prato, divenuto, non sappiamo come, di suo esclusiva proprietà? Forse la spiegazione sta proprio nella falsificazione dei due documenti. L'abbazia non avrebbe potuto vantare alcun possesso sull'intero villaggio di Prato se non attraverso il trasferimento di proprietà da parte di ciascun originario possessore. Qui sorge il dubbio del motivo della falsificazione che si ripete in forme e contenuti diversi sia nel documento successivo, un diploma di Roberto, e sia in un privilegio di papa Alessandro II, con il quale il papa dà il suo beneplacito alle sopradette donazioni, sottraendole ad ogni potere episcopale e ponendole sotto il diretto potere della sede apostolica. Infine, c'è un altro dato interessante contenuto nei falsi predetti, ovvero il pagamento di trenta (!) schifati d'oro per diritti territoriali che il vescovo di Malvito vantava sull'abbazia della Matina. Non posso non collegare questo fatto con l'altro sopraccennato della cessione dei rustici di Prato con le loro proprietà, incluse eredità di Malvito. Che cosa legava Malvito a Prato e alla Matina o viceversa? E ancora. Perché i beni vengono sottratti ad ogni potestà episcopale e posti sotto il diretto potere papale? Difficile rispondere. Neppure la presenza del vescovo di Malvito, Adalardo o Adelardo che sia, del quale si ignora tutto, ci aiuta a venire a capo del mistero, che si complica ancora di più se ai dubbi esposti, aggiungo che il falso privilegio di papa Alessandro II è un lunga, e noiosa, ripetizione di precetti riguardanti l'invadenza e l'arbitrarietà dei vescovi e l'assoluta indipendenza, al presente e in futuro, del cenobio benedettino. Che dire di tutto questo intrigo? A me è venuta a mente la falsa donazione di Costantino, che donava città, palazzi, amministrazioni e ogni altro bene dell'Impero alla Chiesa. Si trattava, ovviamente, di un falso scritto in epoca medievale, scoperto secoli dopo dall'umanista Lorenzo Valla. Nel nostro caso non c'è nulla da scoprire perché Alessandro Pratesi antepone a ciascun documento un'esatta e puntuale lettura, ponendo a confronto i vari documenti, le date, descrivendo lo stato delle pergamene e le annotazioni successive. Ritornando, però, alle verità che detti falsi contengono, voglio ricordare che nei documenti predetti (non in tutti) e in altri successivi, che confermano tali donazioni, compaiono i nomi di due contrade di San Marco: Santa Venere e Santo Stefano. Entrambe comprendevano una chiesa. Quali sarebbero? Ovviamente dei luoghi sacri originari non esiste alcuna traccia, però ricordo che la contrada Santa Venere limita con Santopoli, dove esisteva la chiesetta di San Giuseppe, per quanto riguarda Santo Stefano faccio notare che l'attuale contrada comprendeva l'area conventuale del minimi di San Francesco di Paola.1 In una prossima puntata vedremo altri aspetti della vita del Guiscardo attinenti alla nostra città tratti dalle cronache del tempo. San Marco Argentano, 13 gennaio 2019 Paolo Chiaselotti In alto un particolare dell'arazzo di Bayeux (ci sono cascato!! è una creazione di Chateau-Fort de Pirou): la Calabria si sottomette al Guiscardo 1 Da documenti successivi risulta che Santa Venere era molto estesa e arrivava a monte fino alla Conicella, dove in seguito furono eretti la Chiesa di Santa Maria ad Nives e un convento cistercense. Analogamente la contrada Santo Stefano includeva l'attuale zona chiamata San Francesco, dove sorge la chiesa del Santo paolano e il seminario (già convento dei Minimi). Le chiese citate nelle Carte Latine potevano essere ubicate là dove in seguito sorsero chiese di rito latino, ovvero a Santopoli o alla Conicella per quanto riguarda la chiesa di Santa Venere e a San Francesco per quanto riguarda la chiesa di Santo Stefano. |
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