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U ZU ANGILU


U zu Angilu era una persona singolare, a vederlo sembrava venuto dal passato anzi era rimasto nel passato nel modo di vestire parlare e agire. Era un agricoltore senza terra, lavorava o badava a quella degli altri. Dritto come un albero maestro duro e freddo come il diamante, non lasciava trasparire emozioni, ma il suo aspetto incuteva deferenza. Portava grossi baffi bianchi arrotolati all'insù, come quelli che si vedono nei ritratti in bianco e nero di fine Ottocento, aveva mani dure sembravano radici di olivastro, guai a capitarci in mezzo. Certo doveva essere vecchio già cinquanta anni addietro. Era canuto, e sicuramente la sua data di nascita iniziava con milleottocentoecc.. Indossava un gilet grigio, non ricordo il colore della camicia, pantaloni d fustagno e grossi scarponi ferrati con chiodi a capocchia larga (tacci). I calzini, che a volte spuntavano fuori, erano fatti di lana grezza, filata dalle laboriosi mani della moglie, che oltre a tanto amore ci metteva anche l'anima della pecora. Nella tasca del panciotto portava un orologio a cipolla, forse d'argento, con catena, proprio come quelli dei film western. Dritto sull'uscio di casa stava a rimembrar (direbbe Carducci), con sguardo fisso nel nulla, dava l'impressione che aspettasse il treno e, guardandolo, con un po' di fantasia sentivi lo stridore e gli sbuffi della locomotiva. Se ti incantavi aveva il potere di portarti lontano nel tempo. Il vocabolario du zu Angiulinu era povero ma di certo utilizzava quotidianamente la negazione "SZT" (tradotto NO) e credo che godeva quando la pronunciava facendo schioccare la lingua sotto il palato, aspirando, alzando e torcendo la testa, prima a sinistra poi a destra e lentamente ritornare dritta, per dare più valore e amaro gusto alla negazione.

-Zu Angiulì possiamo andare a vedere se ci sono nidi di cardellini sugli ulivi?

"SZT" (No) (lunga pausa) c'è u granu

-Zu Angiulì possiamo andare nella vigna a

Quando sentiva vigna non ti faceva neanche finire di parlare, non c'erano compromessi o intermediari che potevano convincerlo a darci il nullaosta.

Insomma sempre No.

A volte con mio zio andavamo a rubargli le albicocche nella vigna e per arrivare sotto le piante facevamo un giro lunghissimo, aggiravamo la collina costeggiando il torrente per non farci vedere. Arrivati sotto la pianta, non dovevamo lasciare nessuna traccia del passaggio, persino i noccioli delle albicocche dovevamo sotterrarli o metterli in tasca, perché u Zu Angiulinu si sarebbe incavolato di brutto, ci avrebbe sparati a sale. Altro che RIS, lui era peggio di uno scout indiano, se eri sottovento sentiva l'odore del sapone che avevi utilizzato o peggio se avevi messo il talco o la colonia, era meglio puzzare di cane bagnato o di piscio di gatto. La cosa ridicola e che noi eravamo i proprietari del terreno, ma mio nonno aveva lasciato chiare consegne a zu Angiulinu "Nessunu adda vinì nda terra mancu u Re". Persino gli uccelli temevano u zu Angiulinu, evitavano di sorvolare l'area del fondo, perché testimoni di tanti impallinamenti, ormai conoscevano la gittata del suo micidiale fucile e si tenevano alla larga.

U zu Angiulinu possedeva un fucile ad avancarica vecchissimo ma funzionante, lo teneva sempre lucido. La molla (balestra) che azionava i cani (percussore che da fuoco alla polvere da sparo) erano posizionati all'esterno, roba di altri tempi forse ereditata da qualche Garibaldino.

U zu Angiulinu è paragonabile ai giorni nostri a un personaggio interpretato da Bruce Willis nel film Die Hard, insomma un uomo indistruttibile. Ricordo un aneddoto raccontato da mio nonno: stavano facendo manutenzioni a un tetto del magazzino e il povero zu Angiulinu aveva mal di denti, in pratica un molare marcio lo faceva impazzire, specie quando doveva salire e scendere dalla scala a pioli con grossi carichi sulle spalle. La pressione sanguigna gli bucava il cervello ma non si fermava un istante. Durante una piccola sosta per la colazione delle nove, mio nonno vide zu Angiulinu armeggiare con accetta e un vecchio piede di una sedia rotta, le vecchie sedie impagliate. Con mani sapienti, da mastro d'ascia che non era, aveva appuntito a mo di uncino il piede della vecchia sedia. Forse voleva fare un puntello per legare le pecore pensò mio nonno.

-No non era quello che pensavo, quel matto si era infilato in bocca il legno appuntito e facendo leva si era tolto il morale, cosa da rabbrividire e far incazzare la categoria dei dentisti- disse il nonno. Una sciacquata alla bocca con acqua di fonte e subito a riprendere il lavoro senza battere ciglio. "Addiri cama finisci prima i stasira cumpa Turù u tiempu ummi piaci, forsi chiovi, mi vruscia a firita".

Che uomo che era, non ricordo mai di avere incrociato il suo sguardo: era troppo forte e duro, avevo paura che dagli occhi potesse lanciare fulmini e saette, di sicuro molte volte lo sentivo tuonare, ma quelli erano i legumi.

Noi ragazzini avevamo campo libero solo quando c'era la vendemmia, in quell'occasione veniva concessa una giornata di tregua e u zu Angilu perdeva il suo potere. La piccola comunità delle Pezze e di Bonavita, anche se povera, unita diventava una forza. Ricordo ancora con nostalgia quelle giornate. Non venivano stesi contratti, non c'era da pagare nessuno, solo uno scambio di favori e sani rapporti tra Uomini. Qualche giorno prima della vendemmia si faceva la manutenzione al torchio, ai tini ai recipienti vari, venivano verificate le bardature dell'asino, qualche ritocco ai cestoni (spurtuni) e ai panieri fatti di canne e salice rosso intrecciati. Per mettersi d'accordo con chi avrebbe collaborato non c'era il telefono, ma ci si accordava guardandosi in faccia qualche settimana prima, magari quando qualcuno veniva a prendere l'acqua alla fonte o la domenica al mercato. I nonni pianificavano tutto in modo da non avere perdite di tempo inutili, anche il tempo veniva previsto senza l'aiuto del meteo.
Non ricordo di aver mai vendemmiato con la pioggia. Si stimava la quantità di uva da raccogliere e di quanti asini occorrevano per poter finire il lavoro prima di sera. Compare Guirino portava due asini più tre familiari, compa' Carbone un altro asino più moglie, l'asino nostro più cinque persone, (detta così sembra che animali e persone fossero allo stesso livello, in verità l'asino faceva parte della famiglia come un parente stretto ("è megliu ca mora Cicciu e no lu ciucciu"). C'era cumpa' Corrado più tre figli; la moglie poverina era cieca però veniva vicino alla vigna accompagnata dal figlio più piccolo che non si allontanava mai dalla mamma; la loro casa era confinante con il nostro fondo. Alla fine della conta eravamo quattro asini e 15 persone, bastevoli avrebbe detto lo scrittore Camilleri, in uno dei suoi racconti dialettali. La vigna era situata in contrada Pezze, invece la cantina era distante poco meno di mille metri, tra contrada Belvedere e Contrada Bonavita. Partendo dalla vigna, dove c'era l'abitazione di zu Angiulinu, bisognava salire la silica, antica strada interpoderale che da Bonavita scendeva verso la contrada di Varco Bufalo, passando sul torrente Midichicchiu. La via era mal messa a causa di un appalto, per l'ammodernamento, abbandonato. L'impresa aveva iniziato i lavori rimuovendo il fondo della via, composto da ciottoli di fiume ben sistemati, ma non so per quale ragione le attività vennero interrotte (come succede ancora oggi) e la parte più ripida della silica si presentava molto accidentata, piena di buche, dura da percorrere specialmente con gli asini carichi. La silica si immetteva, e tutt'ora si immette, sulla provinciale che sale verso San Marco Argentano, dopo bisognava percorrere un centinaio di metri di tratto asfaltato e scendere presso la casa bianca dei nonni, quella con il pergolato e il sorbo davanti alla porta. La raccolta dell'uva metteva gioia e il piacere di stare tutti insieme a chiacchierare e scambiare battute, attutiva la fatica. Si entrava nel vigneto armati di forbice e paniere e si procedeva alla raccolta dei grappoli secondo le indicazioni del nonno, che dava ordini come un Raìs. I panieri colmi venivano travasati nei cestoni (spurtuni), infine la coppia di due cestoni pieni di uva venivano caricati sull'asino e iniziava la spola dalla vigna alla cantina, avanti e indietro come formiche laboriose. Davanti alla cantina c'era la tinozza di legno, dove venivano versati i cesti dell'uva. All'interno del tino entravano di solito due o tre bambini con i piedi ben puliti e iniziavano a piaggiare i grappoli facendo uscire il mosto; veniva fatto tutto a mano, anzi con i piedi. L'odore invitante del succo dell'uva attirava le api della zona le quali non davano fastidio, facevano solo un prelievo proletario ronzando vicino alle persone, l'unico problema, lo potevi avere se accidentalmente le mettevi in pericolo, e allora si sacrificavano infilzandoti con il loro pungiglione ed erano dolori e lacrimoni, ma tutto passava velocemente con qualche antica formula magica della nonna. Io e mio fratello che eravamo abbastanza vivaci facevamo tutti i settori, come i giochi nelle fiere d'estate. Si passava dalla raccolta di qualche paniere di uva, al trasporto con gli asini per fare il viaggio di ritorno in sella, (rigorosamente vietato salire sugli animali carichi), pigiare l'uva, azionare la vite del torchio fino allo sfinimento. A fine giornata eravamo completamente distrutti e sciroppati, ci voleva un bagno caldo per lavare il succo d'uva appiccicato su tutto il corpo. Per u zu Angilu quello della vendemmia non era un buon giorno, troppa anarchia troppa gente passava impunemente d'avanti alla sua porta senza che lui potesse vietare qualcosa. Che gran sollievo a sera quando tutto finiva e ristabiliva il coprifuoco.

Qualche anno dopo la morte du zu Angilu, (pace all'anima sua) facendo manutenzione alla sua vecchia casa, abbiamo trovato nel tetto, in un angolo, una montagna di piume di galline, frutto di anni di saccheggi, probabilmente qualche faina o donnola lo usava come rifugio, proprio sopra la testa del temibile zu Angilu che non si è mai accorto dell'intruso in casa sua.


Pino Lento

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