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PASSATO E PRESENTE


Vincenzo Scarpelli "Signor Vincenzo, una volta mi avete raccontato una storia di una macchina, che ora ho dimenticato. C'è qualche altra storia della vostra vita, quando eravate giovane, durante la guerra… "
"Ce ne sono di storie! Ma raccontarle è lungo, ci vuole tempo. Qualche volta, con calma, ve la racconto."

Il signor Vincenzo Scarpelli è seduto sulla panchina di piazza Selvaggi. Siamo in agosto, nelle prime ore del mattino e non fa molto caldo. Mi siedo accanto a lui e gli chiedo se si ricorda quando finì la guerra, qui nel Sud Italia.

"Certo che lo ricordo" mi risponde meravigliato. "Era il 10 luglio del '43. Ero militare in Sicilia quando sbarcarono gli alleati …"
"Ah, sì?" ma non mi andava di sentire storie di soldati e devio il discorso sulla storia di un viaggio in macchina di cui mi aveva parlato in altra occasione.
"E c'entra con lo sbarco il viaggio in auto?"
"Quale viaggio?" mi chiede meravigliato, quasi nel dubbio che lo confonda con qualche altra persona.

Non ricordavo bene il racconto a cui avevo fatto riferimento, ma poiché nella vita tutti abbiamo fatto un viaggio, il dubbio che gli avevo generato mi aiutò a fargli iniziare il racconto.

"Ah, volete dire quando ero a Roma?!"
"Sì, sì" mi affretto a dire "proprio quello di Roma!" Mi era andata bene.

E così Vincenzo iniziò la sua storia. Un parlare fluido, con una sottile vena di ironia, senza patemi, né enfasi, come se la vita di allora e la vita di oggi corressero parallele. Ricordava tutto alla perfezione: luoghi, nomi di quartieri, date. Mentre parlava lo osservavo con curiosità: il naso aquilino, gli occhi neri mobilissimi, le mani scarne poggiate sul bastone, mi ricordavano un'aquila. Innocua, non quelle che vengono raffigurate pronte a ghermire una preda, o quelle del passato regime. Avrei voluto chiedergli se era stato fascista, ma da quello che mi stava raccontando mi rendevo conto che la guerra aveva anteposto agli ideali la necessità di sopravvivere.

"Ero a Roma, la città dove poi ho vissuto per molti anni con la mia famiglia, ma all'epoca dei fatti ero un giovane poco più che ventenne. Era il 1944, a marzo, c'era ancora la guerra, e molti generi erano razionati, ma sapevo dove e come procurarmi un po' di pane, buono, si fa per dire, a "scapicchio", cioè quello che si trovava al mercato nero.
Purtroppo mi andò male. Fui sorpreso all'uscita da due agenti in borghese che mi portarono al Commissariato, al quartiere Salario. Vi rimasi un giorno intero. Avevo anche pensato di fuggire, e fortunatamente non lo feci. Di notte alcuni fermati si erano calati dalle finestre con l'aiuto di funi, che nessuno pensò poi di togliere alla vista dei soldati tedeschi che pattugliavano l'area del cortile. E così un malcapitato che tentò la fuga ci rimise la pelle, ucciso da una sventagliata di mitra. Il suo corpo rimase lì, a terra, alla vista di tutti, e nessuno cercò più di fuggire.
Il giorno successivo fui trasportato su un camion militare, assieme ad altri civili e soldati, a Rieti. Ricordo che indossavo un soprabito che in origine era bianco, ma ormai era diventato grigio tanto era sporco.
"

Ecco, forse era questo il racconto del viaggio di cui mi aveva parlato in un'altra occasione. Mi chiedevo come facesse a ricordare ciò che gli era accaduto, a distanza di tanti anni. Ogni tanto lo interrompevo per chiedergli qualche dettaglio e lui alla fine delle spiegazioni riprendeva il discorso dal punto in cui lo aveva lasciato. Senza che se ne accorgesse tenevo in mano un piccolo registratore digitale, uno di quelli che somigliano ad un accendino, ma prestavo tuttavia molta attenzione alle sue parole nel timore che i rumori della strada potessero sovrapporsi alla sua voce durante la registrazione.

" Anche in questa circostanza le occasioni di fuga sembravano a portata di mano, la strada era in salita e piena di curve, ma la paura di essere visti dai soldati che guidavano i camion ci teneva inchiodati sulle panche dell'automezzo. Un povero disgraziato si è lanciato dal camion approfittando di una curva che avrebbe dovuto nasconderlo alla loro vista.
Non gli andò bene e rimase stecchito in mezzo alla strada. Nessun altro si mosse, convinti che qualunque cosa ci aspettasse all'arrivo era meglio di una palla di fucile nella schiena.
A Rieti fui portato nella caserma Mussolini, ci avviarono al lavoro, dovevamo collaborare, ma ci pagavano bene per quei tempi: trentasei lire al giorno. Ci rimasi un mese, poi, dato che avevo la patente, mi fu chiesto se volevo andare a l'Aquila a fare l'autista, e partii per quella città con un amico. Un sergente tedesco ci informò che dovevamo presentarci al posto di lavoro alle sette del mattino precise, ma un mitragliamento aereo ci impedì di uscire e di raggiungere in tempo la sede per prendere servizio, così quando arrivai con mezz'ora di ritardo mi fu detto che potevo andarmene: non c'era più bisogno di autisti.
E così io e il mio amico ci siamo trovati liberi in una città che era quasi deserta. Giravamo come turisti, un po' sporchi e malandati, ma con i soldi che avevamo guadagnato a Rieti. Andammo pure a mangiare al ristorante!
Vincenzo Scarpelli Bene, arrivati a questo punto abbiamo deciso di tornare a Roma. C'era una corriera che portava militari tedeschi a Roma. L'autista ci disse che se avanzavano posti ci avrebbe fatto salire, dopo i soldati, ma dovevamo pagare cinquanta lire per il viaggio. Io gli ho risposto che lavoravamo per i tedeschi e lui ci ha fatto salire senza pagare. Ma a Settebagni tutti i passeggeri furono fatti scendere: la strada era interrotta. Per fortuna in quel momento passava un tizio che era andato a caricare merce con un Cinquecentoenove, un povero disgraziato che cercava di guadagnarsi qualcosa andandola a vendere a Roma. Lo aveva fermato la finanza per il controllo. Io avevo detto ai finanzieri che dovevamo raggiungere Roma e loro chiesero al trasportatore di darci un passaggio. Era così. Arrivati all'aeroporto del Littorio, vicino Roma, gli salta una ruota con tutto il tamburo. Non c'era modo di aggiustarla, e né potevamo andare a Roma a piedi, perché era notte e c'era il coprifuoco. Abbiamo dovuto aspettare la mattina successiva per raggiungere Roma. Poi, che fare? Non era facile vivere. Se venivi fermato ti prendevano le impronte digitali e mandato chissà dove. Non mi restava altro che cercarmi un lavoro. Lo trovai con i tedeschi, una ditta che smontava i binari del treno, il lavoro si svolgeva di notte. Mi avevano fatto un lasciapassare che potevo circolare liberamente a qualsiasi ora. Finito quel lavoro sono stato trasferito alla stazione del Prenestino.
Bisognava arrangiarsi, in tutto. E c'era gente che aveva bisogno anche di legna. A lavoro finito, alle quattro del pomeriggio, raccoglievo i residui di legno dei vagoni in demolizione, e li portavo a chi me li chiedeva. Per cucinare e scaldarsi, perché allora non c'era nient'altro.
Io abitavo con mio fratello in viale Liegi vicino piazza Ungheria, dove i tedeschi avevano piazzato un cannone. Il giorno prima dell'entrata degli alleati a Roma, il tre giugno 1944, mentre tornavo a casa un soldato tedesco, con tutta le gente che c'era, chi va a fermare?! proprio a me, che speravo finalmente di avere un po' di pace! e mi ordina di spingergli una carrozzella da bambino in cui aveva messo lo zaino e le sue robe militari. Arrivati vicino il cinema Parioli gli ho detto che ero stanco, che non ce la facevo più a spingere tutto quel peso. Mi sostituì con un altro giovane che passava in quel momento. Mollai tedesco e carrozzella e corsi verso casa, ma non vi trovai nessuno, scappati anche loro per paura di essere prelevati da altri soldati tedeschi in fuga. La mattina successiva entrarono gli americani -tutti sapevano già dello sbarco degli alleati tramite radio Londra- una baldoria, con tutti che festeggiavano e loro che regalavano cioccolate, che la gente non vedeva da molti anni.
Poi ho incontrato Corrado Rapanà che stava a Monte Mario e abbiamo deciso di tornare a San Marco, fino a Capua siamo arrivati con mezzi di fortuna. Lì abbiamo dormito in una stalla. E poi da Capua a San Marco ci abbiamo impiegato due giorni e due notti…


Poco distante c'è un amico con l'auto che lo aspetta per portarlo fino alla piazza di sopra. "Approfitto che c'è Turuzzo Lippo che mi dà un passaggio."

"Ma da Roma a San Marco siete venuto a piedi?" gli chiedo, sperando di concludere la storia con un accenno alle sofferenze della guerra.
Guardandomi per un'attimo con quegli occhi di rapace buono, conclude: "Come siamo venuti da Capua fino a San Marco? Con i passaggi in auto che riuscivamo a trovare, e qualche tratto anche a piedi. Arrivederci…" e si alza sollevandodosi agilmente sul bastone. Poi, rivolgendosi all'amico, claudicante per una vecchia paresi, che lo attende a fianco di una vecchia Renault: "Scusa Turu', ma c'era u prufissuru ca vulia cuntata 'na storia…"
Nel tono di voce non c'è nessuna ironia, ma l'espressione mi fa sentire un perditempo. Guardo entrambi salire nell'auto, chiudere gli sportelli e partire verso la piazza di sopra.
Ripasso a mente la storia e mi accorgo che qualche passaggio l'ho già dimenticato: "Messina… Messina… era la città o una ditta… ?"
Controllo il piccolo registratore digitale che per tutto il tempo ho tenuto in mano e mi accorgo che è spento. Spero di non aver premuto il tasto sbagliato e di poter utilizzare almeno qualche spezzone.
Per sicurezza cerco nel borsello il taccuino e gli occhiali per appuntarmi qualche ricordo. Li estraggo a fatica. Mi manca la penna.
Mi affretto a ritornare a casa ripassando mentalmente i punti essenziali del racconto. "La caserma nella quale fu rinchiuso la prima volta. Era una caserma? No, una prigione. Nemmeno, era… era…"
Pazienza, domani glielo chiedo.

Esperienza di vita del signor Vincenzo Scarpelli, raccolta e trascritta da Paolo Chiaselotti

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