IL SUICIDIO DELL'UOMO
Le prime luci dell'alba inondavano la cucina in una mattina d'estate. Il finestrone
esposto ad est invitava ad affacciarsi ad ammirare lo spettacolo che la natura regala
da milioni di anni. Cose semplici come il vento, il respiro il profumo del mattino.
Il silenzio dell'alba era rotto da una voce tranquilla, pacata, stratificata da
novanta primavere. Mi affacciai e vidi sotto la mia vecchia nonna che parlava al
cane e tendeva la mano, passandogli in bocca un biscotto, quelli che di solito i
bambini intingono nel latte prima di sbriciolarseli sul bavero.
-Tieni e fai il bravo lo sai che non devi abbaiare la notte perché disturbi,
qui c'è gente cattiva e possono farti qualche dispetto-
Il cane lupo ascoltava attento e con la sua grossa bocca prendeva con delicatezza
il biscotto senza toccare la mano della mia nonnina. Poi il silenzio, mia nonna
sembrava perdersi nell'infinito, guardava verso la vallata dove il fiume scorreva
nella pianura, disegnando da millenni curve sinuose con la chioma dei salici e dei
pioppi, ai lati sulle collinette si riuscivano a vedere le masserie già attive
con il fresco del mattino. La sua mente viaggiava lontano, invitata dal paesaggio
immutato da anni. Si vedeva nell'area dove c'erano i covoni del grano sistemati
a forma di casette, ogni covone rifletteva il carattere del proprietario, c'era
il covone del pignolo, del tirchio e quello del disordinato. Tutti i confinanti
radunavano le messi su quel piccolo altopiano destinato dalla natura e dall'uomo
a area per la trebbiatura. L'area Bonavita era chiamata da quanti gravitavano nel
raggio di pochi chilometri.
Guardando mia nonna mi resi conto che cadevo nel passato, d'altronde da bambino
ero sempre vicino a lei a sgambettare nell'area ad ammirare il nostro covone ed
aspettare con ansia la festa della trebbiatura. Le giornate erano così lunghe
da sembrare mesi, assaporavo senza rendermene conto tutto quello che mi succedeva
attorno, il canto delle cicale, il cane sempre vicino all'asina tanto da sembrare
una coppia innamorata, il via vai delle formiche avide di pezzettini di grano e
pagliuzze che si affrettavano a portare in fondo alle tane. I miei occhi di bambino
non perdevano niente attenti a scoprire dove i passeri andavano a portare la refurtiva;
era un via vai dai covoni alla vecchia quercia, li odiavo perché ci rubavano
il grano. Comunque io ero sempre armato con una fionda dagli elastici più
incerti della mano; non ricordo di aver mai portato un tiro a bersaglio, adesso
è chiaro che i passeri non mi reputavano un pericolo per la loro incolumità.
Ricordo invece chiaramente che qualche volta i proiettili, costituiti da sassolini,
si schiantavano sul mio pollice provocandomi un dolore indescrivibile che mi allontanava
per lunghi periodi dall'attività venatoria.
Quando il silenzio della campagna veniva disturbato dal brontolio di un motore diesel
che veniva da lontano allora iniziava la festa. La trebbia, la trebbia, sta arrivando
la trebbia. Scappavo verso il ciglio della provinciale e vedevo in lontananza sbucare
dalla prima curva il muso del trattore e dietro bella rossa grande festosa come
la giostra LA TREBBIA, e ancora dietro l'imballatrice e un carrello. A chiudere
la carovana c'era un centauro, sicuro e fiero sulla MotoGuzzi Galletto.
Gli uomini della trebbia avevano la faccia degli uomini della trebbia, impolverati
spettinati grezzi come la corteccia della vecchia quercia, nelle rughe si annidavano
scorte di polvere di grano. Si esprimevano in un calabrese arcaico che spesso dovevo
attingere alla cultura di mia nonna per la traduzione in un calabrese corrente.
Fino a sera era un cantiere in allestimento, per prima si posizionava il trattore,
dietro in linea veniva posizionata la trebbia ben livellata e allineata al trattore.
Gli operai tiravano fuori un'enorme fascia che serviva da organo di trasmissione
per far girare tutto quello che c'era nella pancia della trebbia. A seguire più
indietro sempre bene allineata veniva messa l'imballatrice e infine sotto al secondo
albero di ulivo, generoso di fronde e di ombra veniva posizionata l'attrezzatura
per la preparazione dei ferri di legatura per le balle di paglia.
Quando ormai il buio avvolgeva la campagna e la natura iniziava come ogni sera d'estate
il concerto gratuito, aperto a tutti, delizia per i non vedenti, grilli cicale e
rane dello stagno iniziavano in un crescendo che andava avanti per tutta la serata.
Per la gioia dei vedenti il tecnico delle luci avviava con ordine dettato dal caos,
l'accensione di migliaia di lucciole che incendiavano lo spazio in competizione
con il bagliore delle stelle. Solo allora si imbandiva la tavola per la cena dei
contadini e dei giostranti.
Iniziava la competizione culinaria. Peperoni in ogni sorta, arrostiti spellati,
conditi con aglio sale e olio, tutto rigorosamente proveniente dai terreni vicini,
spesso raccolti a pochi metri da dove si mangiava. Pomodori tondi lunghi e ciliegini
sempre conditi con aglio cipolla sale olio e peperoncino. Polpette di melanzane
fritte nell'olio di oliva. Salsiccia, soppressata, prosciutto, parti molle del maiale
sotto aceto (suzo), uova fritte con cipolla o con cicoletti di maiale. Vino. Tutto
questo in tante versioni quanti erano i rappresentanti dei covoni, minimo cinque.
La mattina dopo, come ogni anno qualcuno mi veniva a prendere dalla casa dei nonni,
di solito mia zia, e mi portava al campo dove ormai i lavori andavano avanti dall'alba.
Era tutto un fermento, l'enorme cinghia, priva di qualsiasi protezione girava pericolosamente
dando energia alla trebbia che ballava e sbuffava in una nuvola di polvere, degli
uomini armati di forconi di legno, che all'origine erano rami di acacia, inforcavano
le messi lanciandole sopra la trebbia dove un'altra persona vigilava e guidava le
fascine di grano, tagliava la legatura liberando le spighe che andavano a finire
nella pancia della giostra e per magia avveniva la separazione dei chicchi di grano
dalla paglia, in un trambusto di battenti e griglie di separazione. Il grano prodotto
primario veniva dirottato in almeno quattro tramogge e da queste cadeva nei sacchi
di grano. Ogni sacco, collegato alla bocca di scarico del grano, era personalizzato
con le sigle, ricamate, del proprietario del covone in lavorazione, in modo da non
essere confuso con i sacchi di altri contadini. Come prodotto secondario usciva
la paglia che andava a finire in un'altra macchina affascinante in quanto era paragonabile
a una testa di cavallo con una enorme bocca quadrata piena di denti di lamiera.
Ogni volta che alzava la testa la paglia cadeva nella tramoggia e subito dopo la
bocca si abbatteva sulla paglia spingendola in fondo alla pressa che andava avanti
e indietro come le bielle di un treno a vapore. Altri uomini spostavano a intervalli
regolari dei ferri che sezionavano le balle, infilavano dentro dei fili di ferro
da un lato e venivano legati dall'altra parte, da un'altra persona. Infine le balle
venivano defecate da questa macchina mostruosa e cadendo venivano arpionati con
dei ganci, trascinati e sistemati ordinatamente in cataste a forma cubica.
Tutti avevano un compito e nessuno stava a guardare, anche io avevo il mio. Appena
arrivato una persona adulta mi lasciava il banco per la preparazione dei fili di
ferro necessari a legare le balle di paglia. Il lavoro andava avanti senza sosta:
prendi il filo, prepara l'occhiello, tendi il filo, bloccalo e infine taglialo,
tutto questo veniva ripetuto allo sfinimento da due bambini, mentre intorno rumori
dei motori vocii di uomini e donne sempre in movimento come le formichine nere intente
a portare in tana la riserva dell'inverno.
L'umore dei contadini era caratterizzato dalla quantità di sacchi che venivano
pieni. Un buon raccolto permetteva di vendere anche una parte del grano, quindi
un qualcosa in più per sopravvivere. Bastava poco per essere felici, lo spegnimento
dei motori una sciacquata per liberarsi di strati di polvere e tutti seduti sotto
la generosa quercia intenti ad arrotolare i maccheroni fatti in casa ricavati dalla
farina dell'anno precedente. Sfilate di peperoni fritti, polpette di melanzane,
enormi piatti di terracotta smaltata pieni di pomodori tagliati a fette abbracciati
ad anelli di cipolla con anellini di peperoncino, origano raccolto in montagna sale
proveniente dalle cave di Lungro, vino in caraffe di terracotta dette cannate, sorrisi
e occhiate d'intesa.
A fine pasto per magia non restava spazzatura. Non c'erano piatti e forchette di
plastica, contenitori vari. La parte organica che rimaneva era un bene prezioso:
una parte ai cani, ai polli e quello che prendeva il massimo era il caro maiale,
altro salvadanaio per l'inverno.
A sera avevi tanta stanchezza e un piccolo tesoro fatto di sacchi di grano che in
seguito diventavano farina per essere trasformata a seconda dei gusti e delle necessità.
Il gorgoglio della Moca e il profumo del caffè mi portarono indietro dal
mio viaggio nel tempo, il sole ormai inondava la cucina e mia figlia navigava con
il telecomando del televisore in una mano e con l'altra mandava messaggini agli
amici. L'aria dei covoni si era allontanata a migliaia di anni luce, sotto casa
ormai il cane rincorreva il gatto del vicino e mio nipote sgommava sul selciato
dove mezzo secolo addietro sbuffava la trebbia.
Sul tavolo c'era la scatola dei biscotti, ne presi uno, lo liberai dal cellofan
di protezione e lo portai alla bocca, non aveva niente a che vedere con il pane
casereccio che da bambino affondavo nel latte. Presi gli avanzi, la plastica con
la plastica i fondi del caffè nell'indifferenziata. Guardando i bidoni della
raccolta della spazzatura sotto il lavello della cucina notai che erano pieni, in
un giorno in quattro persone avevamo prodotto almeno quaranta litri di spazzatura
senza contare quello che andava nel water. Quando trebbiavamo eravamo almeno trenta
persone e in due giorni di lavoro, pasti e bisogni fisiologici non riuscivamo a
produrre neanche un litro di spazzatura.
Io non ho cent'anni, tutto quello che ho raccontato è rigorosamente accaduto;
succedeva meno di cinquant'anni addietro.
P.L.
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