PREMESSA
Essendo mio fratello Flavio nato tredici mesi prima di me e non essendo io stato
testimone dell'evento, ho desunto gli avvenimenti che seguono dalle fotografie e
dalle espressioni dei protagonisti in esse riportate.
Per quanto riguarda la mia nascita e i primi mesi di vita mi sono affidato ai tenui
ricordi che ho di quel periodo. A distanza di tanti anni è molto difficile
ricordare tutti i particolari, soprattutto quelli legati al travaglio del parto,
che ho volutamente omesso.
Di tutti gli altri avvenimenti raccontati sono stato diretto protagonista o testimone.
Alcuni potranno apparire al lettore un po' esagerati, ma posso assicurare che tutto
ciò che è narrato in questo libro è assolutamente vero.
Ho riportato a volte gli anni in cui avvennero, altre volte no. Ho scelto questa
soluzione per motivi narrativi, non essendo sempre gli episodi esposti in ordine
cronologico, ma talvolta correlati con l'argomento precedente.
La nascita del primo figlio
Mio fratello Flavio era nato nel 1939, l'anno in cui la guerra aveva avuto inizio,
ma lui non ne aveva colpa.
Era biondo, con occhi cerulei e una testa voluminosa che fu causa di grandi sofferenze
per mia madre al momento del parto. Mio padre, appena lo vide, capì subito
che aveva fatto la cosa giusta: lo fece ritrarre da un noto fotografo di Trieste
ancora nudo e fumante.
La circonferenza cranica e la fierezza dello sguardo suggerirono subito alla zia
Franceschina un parallelo con la bella testa del duce, mentre il marito, lo zio
Dario, propose di chiamarlo Giulio Cesare. La madre, considerati i tempi, pensò
ad Adolfo. Il suo babbo si impose e lo chiamò Flavio, come l'anfiteatro:
Colosseo parve a tutti eccessivo.
Gli fu insegnato subito a contare, a costruire e a pensare. Crescendo apprese come
montare assieme i pezzi del meccano: assicurano che si fosse costruito da solo una
culla, un box e la carrozzina da passeggio.
Il padre aveva già deciso che ne avrebbe fatto un ingegnere.
La nascita del secondo figlio
La persona che da qui a poco sarebbe diventata mio padre, appena la moglie si fu
ristabilita, pensò di ripetere la cosa giusta.
Non gli riuscì e nacqui io.
Avevano deciso di impormi un nome ovoidale, Paolo, prima ancora di nascere, convinti
che così non avrei provocato grossi dolori a mia madre al momento del parto.
Fui affidato subito a mio fratello che cercò a lungo di scoprire cosa contenessi.
Fu il primo ad aprirmi gli occhi: usò entrambi gli indici.
Nonostante fossi nato a gennaio vidi la luce alcuni mesi più tardi quando
mio fratello cominciò a scrutarmi i bulbi oculari con una candela accesa.
Le prime cure
Il medico, che era chiamato ogni qualvolta entrambe le famiglie, la nostra e quella
degli zii, erano al completo, consigliò di separarci.
Papà interpretò il suggerimento come un tentativo di parcellizzare
le competenze professionali in rapporto ai membri del nucleo familiare e si mise
alla ricerca di un altro medico.
Allora quasi tutti i libri avevano le pagine ingiallite, ma stranamente non esistevano
ancora quelle completamente gialle; mio padre essendo tranviere aveva la possibilità
di leggere rapidamente tutte le targhe degli studi medici presenti in città.
Dopo una settimana, a conclusione delle percorrenze sull'intera rete, attratto da
una targa in ottone in piazza Goldoni al capolinea del tram, scelse il dottor Zurck,
per la garanzia del nome austro - ungarico.
Mio zio Dario avrebbe preferito un tale dottor Morabito, originario di Reggio Calabria,
ma la zia gli comunicò con quei gesti rapidi dei muscoli orbicolare, massetere
e zigomatico, tipici delle popolazioni meridionali, che la cosa non sarebbe stata
gradita.
Scoprirono più tardi che il dottore Zurck era un dentista, ma nessuno ebbe
mai il coraggio di spiegare l'errore a quel signore dall'aspetto austero e di poche
parole.
Dopo alcuni mesi, mamma, papà e gli zii, approfittando di una bella giornata
di sole, esibirono un dente d'oro ciascuno in una lenta passeggiata sul corso.
Papà non volle mai ammettere di aver sbagliato medico neppure quando si accorse
di un incipiente rachitismo dal modo eccessivo in cui piegavamo le gambe.
Nonostante i suoi sforzi per imporci una posizione corretta e la visione ripetuta
di una sua foto esemplare in tenuta ciclistica non cambiammo posizione.
Il dottor Morabito, forzatamente riabilitato, consigliò molto sole e olio
di fegato di merluzzo.
Per alcuni giorni papà e lo zio Dario, che era sergente maggiore della Croce
Rossa, non si rivolsero la parola.
Papà fece gli straordinari: cercò a lungo nell'officina dell'azienda
autoferrotranviaria oli compatibili, ma erano tutti minerali e alcuni di ricino.
Lo zio sergente forzò l'armadietto privato del maggiore ma vi trovò
solo soldi. Non se ne fece niente.
Mamma e zia gestivano una rivendita di sali e tabacchi, generi razionati e soggetti
a controllo: cominciarono a svuotare piccoli quantitativi di tabacco dalle sigarette
mettendolo da parte in una lattina con l'intenzione di rivenderlo al mercato nero.
Nella bottega non c'era il bagno e al momento dei bisogni fisiologici dovevano attraversare
la strada e farsi cinque piani di scale per raggiungere l'appartamento in cui abitavano
oppure arrangiarsi con una lattina.
Scelsero la seconda soluzione. Quel piccolo capitale in tabacco fece la sua fine
naturale: andò in fumo.
Lo zio tornò dal maggiore per chiedere un anticipo. Trovò i militi
che perquisivano la caserma alla ricerca dell'ufficiale e della cassa.
Non furono mai trovati. Lo zio approfittò della confusione per mettersi in
tasca alcuni quadretti di cioccolata.
Papà, che era ciclista e partecipava a varie gare regionali, aveva la possibilità,
ogni qualvolta c'era un raduno ciclistico, di attraversare paesi e campagne. Al
ritorno pesava qualche chilo in meno, ma portava sempre qualcosa infilata nelle
tasche della maglia e da quando aveva messo su casa pensava più al ritorno
che all'andata.
Un giorno bussò alla porta con i piedi, le mani erano occupate: una reggeva
la Legnano sulla spalla destra, l'altra stringeva il collo di un'oca.
Non fu sprecato nulla tranne le calze rosse, che papà scherzosamente affermava
che se le avessimo mangiate ci sarebbe puzzato l'alito.
La signora Domenica
Sarà stato un caso, ma dal giorno dell'oca mio fratello cominciò ad
ingrassare e poiché anche le vendite di sale e tabacchi andavano meglio del
solito gli comprarono un piccolo corno d'oro e una Madonna da portare al collo,
con grande disappunto di mio padre che, ateo e giusnaturalista, assicurava che sarebbe
bastato bucargli la tasca ....
I miei, al di fuori di mio padre che si alimentava di introspezioni più profonde
e sempre sbagliate nel giudicare il prossimo, ritenevano che la signora Domenica,
la portinaia dello stabile in cui abitavamo, fosse portatrice di scalogna.
In effetti, ogni volta che qualcuno di noi passava dinanzi la sua portineria emetteva
un sospiro profondo. Anche mio fratello ed io pensavamo che quella ispirazione seguita
da un suono tenue e prolungato avrebbe potuto condizionare la nostra vita.
Al primo pianerottolo, al di fuori della sua vista, con un'azione coordinata, congiungevamo
di scatto con forza il palmo della mano destra con il braccio sinistro a squadra,
sollevandoci da terra con un saltello a piedi uniti, convinti di aver controbilanciato
in tal modo i poteri nefasti.
Il signor Domenico, che per caso o per scelta era il marito, ci vide senza che noi
vedessimo lui e da allora ci convincemmo ancora di più che la signora Domenica
fosse un'autentica sventuratrice.
Un pomeriggio mamma fu avvisata che papà era stato ricoverato all'ospedale
per una caduta dalla bicicletta: passò dinanzi la portineria senza fermarsi
a dare spiegazioni alla signora Domenica della sua fretta e, come raccontò
in seguito, la sentì emettere non uno, ma due sospiri. Papà era finito
con una gamba sotto la ruota di un camion; una brutta frattura che lo costrinse
a camminare con due stampelle per circa quattro mesi.
Gli eventi successivi dimostrarono che quei due sospiri c'entravano ben poco con
quella che noi ritenevamo una iettatura.
La guerra non era ancora finita e i tedeschi reclutavano soldati tra gli operai.
A svolgere i lavori prima destinati agli uomini erano chiamate le donne: molte erano
passate dal ruolo di bigliettaie a quello di conduttrici.
Papà, che aveva meno di quarant'anni, aveva svolto il servizio militare in
marina, era meccanico, elettricista, conduttore di tram, sapeva fare tutto, al contrario
di mio zio che sapeva fare solo il sergente.
Quell'incidente gli fu provvidenziale, perché impedì che fosse forzatamente
arruolato e trasferito in Germania, così come era toccato a molti suoi colleghi.
E noi, cioè mio fratello Flavio ed io, come accogliemmo questa fortunata"
sventura?
Nel suo aspetto migliore: ogni volta che papà rientrava era l'occasione per
scendere quei centotrenta gradini che separavano il nostro appartamento dal portone
d'ingresso per andare a prendergli le stampelle e portarle trionfalmente in spalla
o fingere anche noi di zoppicare.
Il primo impiego
Ancora nessuno sapeva quando la guerra sarebbe finita e quelle poche risorse che
ciascuna famiglia aveva erano considerate l'unica ricchezza possibile. Nelle risorse
erano compresi anche i bambini che in un modo o nell'altro potevano dare un contributo
nelle piccole faccende quotidiane.
A poco più di quattro anni fui impiegato a tagliare i bollini delle tessere
del tabacco con enormi forbici che reggevo a stento con entrambe le mani. Mio fratello
svolgeva già da un po' di tempo questo importante incarico, con pazienza
ed estrema perizia.
Il tabacco era razionato: ciascun individuo adulto aveva diritto a poche spagnolette
al giorno il consumo delle quali era attestato da una tessera da cui bisognava ritagliare
di volta in volta un bollino.
C'era chi, fortunatamente per sé e per gli altri, non fumava e dava la sua
tessera al rivenditore in cambio di altri generi, tipo sale o spetime-un-poco.
Il rivenditore, in questo caso mia madre, utilizzava le tessere per ricavare dai
fumatori più incalliti un utile maggiore, insomma qualcosa che allora si
chiamava borsa nera o mercato nero.
Data l'età, nonostante mio padre mi avesse già collocato tra gli adulti,
non mi rendevo conto di essere già un piccolo delinquente. Lo scoprii quando,
stanco delle ore trascorse a ritagliare bollini, decisi di abbreviare i tempi mettendo
sotto le forbici un pacchetto di circa dieci tessere: l'operazione non riuscì
la prima volta, né la seconda e neppure la terza.
Il quarto tentativo mi fu impedito con la forza da mia madre che, accortasi delle
decine di bollini irrimediabilmente tagliuzzati, mi strappò le forbici dalle
mani e mi diede appunto del delinquente.
Gli umori salivali rovinarono anche un'altra decina di tessere rimaste sul tavolo
sotto le mie braccia su cui avevo poggiato il viso arrossato e umido di pianto.
Non fui punito, ma da allora rimasi senza lavoro.
Il piccolo partigiano
Passavo il tempo guardando dalla finestra ciò che accadeva in strada o sfogliando
le pagine di una rivista tedesca, Signal, che mostrava bambini belli, biondi e felici
alle prese con altalene, bagni di mare, castelli di sabbia, seguiti da mamme e papà
altrettanto belli, biondi e felici.
Mio padre era calvo e mia madre aveva occhi e capelli nerissimi e nessuno di noi
mi sembrava felice. Tranne qualche rara uscita domenicale ricordo solo interminabili
giornate chiuso in casa.
Non so dire esattamente se l'odio per la guerra e per i tedeschi iniziò allora.
Il passo fu breve: da delinquente dedito alla borsa nera diventai un bandito, come
erano chiamati dai tedeschi i partigiani.
Dalle nostre finestre al quinto piano del numero ventisei di via Udine si vedeva
la villa Arrigoni, che era diventata sede di un comando militare tedesco.
La villa, simile ad un castelletto medievale, aveva un piccolo parco, pattugliato
da soldati che andavano avanti e indietro con il fucile in spalla.
Guardandoli, dapprima li imitavo, seguendone il movimento e girandomi di scatto
assieme a loro, poi un giorno pensai che avrei potuto abbatterne qualcuno senza
essere visto.
Appoggiai due cuscini contro le barre orizzontali che ci impedivano di volare giù
dal quinto piano e vi infilai il manico della scopa a mo' di canna di fucile.
Semi nascosto, con la testa coperta da un cappello con veletta di mia madre, scrutavo
il nemico pronto a colpirlo al primo passo falso, ma non avevo tenuto conto, data
la mia ingenuità, del fatto che anche nel campo avversario c'era qualcuno
che aveva notato la mia presenza: un soldato con il binocolo aveva cominciato a
gridare ordini che non riuscivo bene a decifrare.
In pochi minuti fu un accorrere e schierarsi di soldati con la mitragliatrice e
i fucili puntati verso la casa sede della piccola brigata partigiana e fu in quel
momento che alle mie spalle, preceduto dal grido "putana eva!
", arrivò mio padre che pose fine alla impari battaglia: mi sollevò
in aria, mostrandomi al nemico in tutta la mia altezza e agitando la scopa in segno
di resa.
Mi chiamò vigliacco e farabutto e lo ripeté non so quante volte, asciugandosi
la fronte con il dorso della mano.
Fummo convocati al comando tedesco e, fin dall'ingresso nel castello, mi apparve
subito evidente la sproporzione dell'apparato bellico che avevo messo in campo con
quello del nemico.
Il trattato di resa si concluse con un fermo alle finestre e la proibizione di accostarmi
ad esse.
Bambini alla guerra
Decisi, allora, di indossare la divisa e mi arruolai nell'esercito.
A casa nostra le divise erano due: quella di tranviere di mio padre e quella di
sergente di mio zio. Mio fratello e io indossavamo a turno il berretto con la visiera
di mio padre e la bustina di mio zio, assumendo di volta in volta il comando del
più piccolo esercito del mondo ogni qual volta papà ritornava a casa
dal lavoro.
Avevo scoperto anche un grosso cinturone nero in fondo ad un cassetto che, con gli
stivali dello zio, mi conferivano un aspetto minaccioso.
Quando nessuno di loro era a casa indossavo anche quel famoso cappello grigio della
mamma con veletta sul viso che avevo usato nelle brigate partigiane. Forse questo
uso disinvolto e arbitrario di accessori vestiari mi rendeva poco credibile come
soldato agli occhi di mio fratello, che un giorno volle mettere alla prova il mio
coraggio e la dedizione alla causa.
Rivestiva un grado più alto del mio e, biondo, carnagione chiara e occhi
azzurri, era sicuramente più vicino alla razza ariana di quanto lo fossi
io.
Mi portò a conoscenza di un segreto che ancora non conoscevo e cioè
che la caldaia dell'acqua della Sparherd, una cucina a carbone che tutti chiamavamo
lo spagher perché nessuno di noi conosceva il tedesco, non era l'abisso
che mi aveva fatto a lungo credere ogni qualvolta vi infilava l'attizzatoio.
Mi fece salire su una sedia per costatare con i miei occhi la scarsa profondità
della caldaia: fui lieto di scoprire che l'attizzatoio vi entrava solo a metà.
Provai anch'io, poi provò di nuovo lui, poi ancora io, poi lui ... e fu a
questo punto che tolto l'attizzatoio dall'acqua bollente lo appoggiò all'improvviso
sul mio braccio.
Saltai dalla sedia e mi misi a correre per le stanze. Le urla di dolore, che aumentavano
di intensità ogni qualvolta mio fratello cercava di afferrarmi e di coprirmi
la bocca con la mano, fecero accorrere parenti e vicini.
Gli occhi di tutti erano su quell'appariscente marchio orizzontale che mi avrebbe
distinto per sempre dagli altri bambini e che per alcuni giorni dovetti esibire
agli ospiti occasionali su richiesta dei congiunti.
Per evitare che mi fossero inflitte altre torture, le esercitazioni militari furono
spostate in un piccolo stanzino di circa due metri per tre che a casa era chiamato
pomposamente il salotto.
Durante le marce sul parquet con gli stivali dello zio sergente spesso allo scricchiolio
dei tasselli di legno si univano i colpi minacciosi e le grida provenienti dal piano
di sotto, il cui inquilino scoprimmo più tardi essere un ufficiale di grado
superiore al nostro: il maggiore Valentino.
Durante una di queste sfilate militari entrò nella stanza il sergente zio:
mi accorsi subito che c'era qualcosa che non andava nella divisa che indossavo,
perché lo vidi abbassarsi per quella che ritenevo una ordinaria rassegna
della truppa e urlarmi nell'orecchio l'ordine di togliermi quel cazzo di cinturone
nero, che andò a riporre in un cassetto più in alto.
La prigionia
Mio zio era violento e l'abuso dei mezzi di correzione non era ancora conosciuto
come tale.
L'incatenamento al letto poteva essere praticato in barba alle convenzioni di Ginevra,
anche dalla Croce Rossa, in cui mio zio sergente prestava servizio militare.
Un giorno, non ricordo per quale atto di insubordinazione, ma non escluderei una
segnalazione dell'ufficiale del piano di sotto, lo zio sergente ci segregò
nella sua stanza legandoci per i piedi ad una gamba del letto, un grande lettone
in ferro a due piazze, sotto il quale erano riposte le sue cose più segrete.
Fu così che scoprimmo che cosa mio zio andava a nascondere ogni volta che
tornava a casa, chiudendosi a chiave all'interno della stanza.
Aprimmo la piccola valigia di cartone pressato e vi trovammo dieci pezzi di cioccolato
fondente. Lo avremmo solo assaggiato ...
I buoni propositi si scontrarono con la golosità. Finì per vincere
quest'ultima.
Ricomponemmo con cura la forma del cartoccio per dargli l'apparenza della sua originaria
integrità.
Oggi l'operazione cioccolata franca farebbe sorridere, ma in periodo di guerra non
era così: all'atto della liberazione l'affidatario delle cioccolate della
Croce Rossa, nonché zio carceriere, scoprì la sottrazione delle riserve
alimentari dalle appariscenti tracce del prodotto sul viso e sulle mani dei prigionieri.
La detenzione fu sospesa giusto in tempo per toglierci le mutandine e metterci sotto
il culo un vasino di smalto bianco con orlo bluette che riempimmo in breve tempo.
Dovettero fare i turni di assistenza, il sergente della Croce Rossa, la moglie,
mia madre e mio padre, per impedire la disidratazione degli ex prigionieri, imprecando
contro quella guerra di merda, quella vera, di cui aspettavano la fine.
La fine della guerra
Aspettavamo anche noi la fine della guerra, stanchi dei continui bombardamenti,
delle ore passate in piedi attaccati ai muri maestri o chiusi nel rifugio di piazzetta
Belvedere o nello scantinato sotto casa, dove l'unica consolazione era Claudia Scrobogna,
detta Cicci, una bambina più grande di noi assieme alla quale cantavamo "I
Pompieri di Viggiù".
E la guerra finì.
Lo vidi dalla finestra che finalmente si poteva aprire. Finì con l'ultimo
soldato tedesco in fuga ucciso sulla scala dei Lauri dall'oste della piazzetta Belvedere.
Mamma spedì mio padre alla villa Arrigoni: una gran folla di persone stava
saccheggiando il castelletto abbandonato in fretta e furia dal comando tedesco.
Donne, uomini, bambini andavano e venivano trascinandosi dietro materassi, letti,
coperte, quadri e quant'altro potevano portare con sé.
Papà aveva la gamba ingessata e camminava a stento poggiandosi sulle due
stampelle.
Si fece come poté i centotrenta gradini, i cento metri di strada, la scalinata
della collina e non so quante altre stanze del castello, mentre mia madre e mia
zia lo accompagnavano con fervide preghiere che tornasse sano, salvo e con qualcosa
in mano.
Al ritorno gli andammo tutti incontro: mio fratello ed io a prendergli le stampelle,
mia madre a scrutare quella piccola scatola di legno che papà tratteneva
commosso in mano impedendo a chiunque di scoprirne il contenuto.
Un luccichio metallico fece gridare all'oro. Si affacciò sull'uscio della
portineria il signor Domenico.
" Galena".
No, non era il cognome del portinaio, ma il nome del metallo che luccicava sulla
scatoletta.
Al signor Domenico dalla sua altezza bastò gettare un'occhiata sopra la spalla
di papà, che mai mi apparve così piccolo, per stabilire che quel metallo
argenteo era galena.
Mamma, che parlando di lui con zia lo definiva un bell'uomo, guardandolo con simpatia
e speranza, gli chiese quanto valesse.
Niente, serviva solo per la radiolina che papà teneva gelosamente stretta
con quell'ansia che mostrano i bambini in attesa di usare il giocattolo nuovo.
L'odio di mio padre per il signor Domenico, considerato da sempre un grande magnamerda,
aumentò a dismisura.
Fu da allora che la vita di mio padre rimase a lungo appesa ad un filo sottilissimo.
Quello che collegava la galena con il resto dell'apparecchio radio, la cui magica
funzione riusciva a distendere i profondi solchi che gli attraversavano perennemente
il viso e la fronte.
Dalla sortita al comando tedesco aveva portato con sé anche altri oggetti,
che per pudore non mostrò mai a mia madre: due membrane per cuffie radio,
un oggetto piatto e ruvido in bachelite scura, un pezzo di alluminio ogivale con
filettatura interna e due fori laterali. Nonostante di questi ultimi oggetti non
si fosse mai scoperta l'esatta funzione, furono gelosamente custoditi per molti
anni assieme a viti, bulloni, spille da balia e sugheri per la pesca, che rappresentavano
il piccolo e unico patrimonio personale di nostro padre.
Le truppe di Tito
Il giorno dopo i partigiani di Tito, uomini e donne con il fazzoletto rosso al collo
e la pistola o il fucile al fianco, sfilarono cantando per via Udine. Molte bandiere
sventolavano dalle finestre, alcune con una stella al centro, altre senza.
Mamma e zia ne avevano cucite quattro, per quante erano le finestre, tutte con la
stella slovena. Per maggior sicurezza.
Due bandiere con lo stemma sabaudo furono bruciate da alcuni partigiani saliti con
grande fragore verso l'appartamento del padrone di casa sottostante il nostro, mentre
lo zio sergente andava a prendere il cinturone e lo infilava nella stufa accesa
assieme ad una camicia nera che non avevo mai visto.
Una caricatore di pistola arrugginito ostruì per alcuni anni lo sciacquone
del bagno, fino al giorno in cui lo zio sergente si ricordò di avercelo nascosto
durante la sfilata dei titini.
Lo zio alcuni giorni dopo indossò incautamente la divisa di sergente convinto
che l'appartenenza alla Croce Rossa lo avrebbe preservato dalle vendette di cui
si parlava. Fatti pochi metri fu aggredito e insultato dal suo più caro amico,
uno sloveno che fino a pochi giorni prima aveva indossato la stessa divisa. Gli
strappò gradi e bottoni costringendolo a rientare in casa. Quel gesto, all'apparenza
violento e prevaricatore, gli evitò di finire, come tanti altri, nelle foibe.
Gino, il figlio di mio zio Giovanni rideva delle paure che erano state messe in
giro, ma mamma e zia che continuavano a chiamarlo in sua assenza "u banditu",
non gli credevano, con grande dispiacere dell'altra sorella, zia Maria che lo teneva
come un figlio, visto che aveva sposato il padre, Giovanni Zorzon, "un comunista
tanto buono ".
La casa dove abitavano lo zio Giovanni e la zia Maria era in via Boccaccio, dietro
la nostra casa. Io vi andavo con piacere per tre motivi: vedere la mano di zio che
aveva un dito in più vicino al pollice, giocare con un contenitore cilindrico
tedesco che tenevano sotto il lavello e sentire la storia di Gino quando era andato
con i partigiani di Tito. Ogni volta che veniva affrontato questo argomento venivo
riportato a casa con la scusa che era tardi.
Arrivano i nostri...
Quaranta giorni dopo la fine della guerra entrarono a Trieste le truppe angloamericane.
Passarono anche per via Udine e noi eravamo lì ad accoglierli.
Io, il più piccolo, camicetta bianca, calzoncini di velluto nero con bretelle
e bottoni bianchi, armato di un mazzo di fiori freschi, fui arruolato nell'esercito
alleato e messo davanti a un soldato nero che mi dava pezzi di cioccolata, mentre
mia madre correndomi a fianco, lo supplicava di restituirle quel bambino che si
ostinava a godersi la vittoria seduto sulla stella bianca di un grosso carro armato.
Da allora cambiò tutto.
Il cappello di zia Franca fu trasformato in quello di Kit Kartson, i cuscini della
trincea divennero cavalli, l'esercito fu sciolto e mi ritrovai nel lontano West
alle prese con gli indiani.
Imparammo l'inglese. "Ev iu ciuingom" ad ogni soldato americano
che passava: ogni dieci "fachiù" ottenevamo una chewing-gum.
Cominciavamo a capire la legge della domanda e dell'offerta e visto che la domanda
di gomme da masticare superava notevolmente l'offerta, ci fu chi inventò
la gomma a noleggio: Giorgio, un ragazzone con il cappotto da adulto, portava con
sé, in una bomboniera di vetro, una palla rosea di gomme già masticate
e per qualche lira ne dava un pezzetto a chi gliene chiedeva una.
Qualcuno tra i piccoli ignari acquirenti dovette ricorrere più tardi alle
cure del tubercolosario.
L'economia di guerra aveva lasciato il posto alla guerra delle economie.
Ognuno se ne inventava una, come quel signore elegante che affabilmente chiese a
mia madre non so quali e quante marche diverse di sigarette, dopo aver approfittato
della mia ingenuità per allontanarmi con poche lire da spendere in caramelle.
Al ritorno trovai sull'ingresso mia madre che gridava al ladro volgendo lo sguardo
angosciato verso i due lati della strada.
In questura fu chiesto anche a me di descriverlo: ma ricordavo solo le due lire
che mi aveva dato, il cappotto nuovo con la cintura e le scarpe troppo vecchie.
Era il cinque dicembre e la mattina del giorno successivo, dedicato a San Nicolò,
versione demo del più famoso babbo Natale, non trovai nulla sul vecchio tavolino
ricoperto di un panno azzurro sul quale il santo di notte aveva da sempre depositato
i regali.
Forse iniziò allora quel processo di revisione devozionale che in età
matura mi portò all'ateismo: mi venne il dubbio che il santo avesse tenuto
conto delle due lire di caramelle che avevo accettato dal ladro.
Giornali e tabacchi
La rivendita si ampliò con la vendita dei giornali e soprattutto dei giornalini:
Topolino, Gim Toro, Mandrake, Gordon, alcuni lunghi e alti pochi centimetri, facili
da mettere in tasca, altri enormi da sfogliare stando distesi sul letto.
Mio fratello non aveva ancora sette anni, io quasi sei, ma potevamo finalmente scendere
nella rivendita che era di fronte casa e chi arrivava primo gridava all'altro, portandosi
le mani a lato della bocca perché la voce potesse giungere fino al quinto
piano, quale giornalino era arrivato. Sembravamo gli strilloni del quartiere con
clienti agli ultimi piani delle case.
I giornalini invenduti e quelli che avevamo sgualcito troppo per essere venduti
ancora come nuovi finivano sul marciapiedi, dove mio fratello ed io gestivamo una
piccola vendita dell'usato.
Il tenore di vita era profondamente cambiato. Non c'erano più bollini da
ritagliare, papà aveva sostituito la radiolina a galena con una radio senza
cuffie. Il profumo di mamma aveva sopraffatto l'odore stantio di tabacco vecchio
e di colla di pesce di cui si era impregnata in tanti anni di vendita di sigarette
e valori bollati.
Mamma e zia impararono a fumare, più per necessità che per desiderio,
mettendosi in bocca tra sbuffi di fumo e colpi di tosse sigarette mezze vuote che
nessuno voleva comprare.
Il ricordo delle privazioni durante la guerra era così forte che buttare
via residui di tabacco era come buttare il pane.
Quando le scoprivamo a fumare nel retro bottega ci ricordavano molto Cita, la scimmia
di Tarzan, forse perché lo facevano con grande sussiego e, grattandoci la
testa, come avevamo visto sul film proiettato nel cinema, chiedevamo di provare
anche noi.
La via Udine
La lunga via con i binari del tram, i negozi, la scaletta dei Lauri, il vecchio
rifugio antiaereo, la piazzetta, le stradine laterali, il cinema erano il piccolo
mondo in cui cominciammo a fare le nostre prime esperienze.
La rivendita era il luogo ove trascorrevamo la maggior parte del tempo, al di qua
o al di là del bancone. Mentre mamma o zia Franca servivano i clienti, noi
li osservavamo con curiosità.
Molte persone anziane continuavano a fiutare il tabacco da naso mettendone un pizzico
in entrambe le narici ed emettendo sonori starnuti ai cui umori a stento ci si sottraeva.
C'erano le babe, donne ciarliere in conflitto con se stesse e con il mondo,
i muli, ragazzi con calzoni alla zuava che acquistavano una o due sigarette,
i mati, che entravano per fissare a lungo senza parlare i presenti, i signori,
che acquistavano sigarette con tabacco turco.
Tra i muli c'era Giorgio, uno spilungone che bighellonava nella zona in attesa della
vittima dei suoi scherzi. Quello più frequente era accostare al tartufo di
un barboncino al guinzaglio di una ignara signora un pizzico di tabacco da fiuto
sottratto abilmente dalla scatolina posta al di là del banco di vendita.
Alfredo era el mato che chiedeva a mia zia del sale e poi lo rifiutava affermando
di averla vista sputarvi di sopra. Erano mesi che ripeteva sempre la stessa cosa
e mia zia, per timore di una sua reazione, svuotava nuovamente il sale nel contenitore,
fingendo di essere stata scoperta.
Un giorno un avventore, al momento di uscire dopo aver acquistato le sigarette,
sentendo dire che mia zia sputava nel sale, ritornò sui suoi passi e minacciò
di far intervenire l'Intendenza di Finanza.
Zia Franca con la consueta mimica facciale cercò di comunicargli che il tizio
che faceva quelle affermazioni non era giusto di testa e che, non osando smentirlo
apertamente, fingeva di assecondarlo.
Il cliente, vedendo quella donna che ruotava gli occhi, strizzava di tanto in tanto
le palpebre e storceva la bocca, e quel tizio dallo sguardo allucinato che si agitava
un po' eccessivamente sulle gambe, indietreggiò verso l'uscita, salutò
e si diresse a passo svelto verso piazzetta Belvedere scomparendo definitivamente
alla mia vista. A casa, zio Dario commentò l'accaduto con la consueta disapprovazione
per tutti coloro che non si facevano i cazzi loro.
I negozi
Il signor Ettore della vicina salumeria era un tipo scherzoso. Mio fratello ed io
lo chiamavamo il signor Trapascain.
Ogni volta che entravamo, fingeva di essere occupato in altre faccende, poi all'improvviso
ce lo trovavamo davanti con una paletta unta di senape con cui, al grido "Trapascain",
ci imbrattava immancabilmente la bocca o il viso.
Da Tenze, un anziano signore calvo e grigio che gestiva un negozio lungo, stretto
e buio, con alti scaffali in cui aveva ogni sorta di oggetto, dal filo per la pesca
alle calze di seta, andavamo a comperare s_cinche, bobi e acciarini, palline di
creta, vetro o acciaio, con cui giocavamo interminabili partite nella adiacente
piazzetta.
Non ci fece mai uno sconto e ogni volta che gli dicevamo di essere i figli del signor
Paride della rivendita di fronte ci raccomandava di portargli i suoi saluti.
Poco più avanti, andando verso Roiano, c'era il negozio di alimentari del
signor Ennio e della signora Gina, una bella, procace donna bruna dalle labbra rosso
fuoco.
Nei primi anni dell'infanzia il suo seno, generosamente scoperto, mi ricordava il
precoce svezzamento materno; negli anni dell'adolescenza tutti i derivati del latte.
Entravo con le gambe che mi tremavano per la paura che il marito Ennio leggesse
i miei pensieri.
Mi dirigevo verso il banco dietro il quale c'era la signora Gina alla quale chiedevo
un etto di un prodotto e quando lei si chinava per prenderlo, indicavo con il dito
quello immediatamente più vicino. Così facendo potevo guardarle più
a lungo il seno, reso ancora più voluminoso dall'effetto deformante del vetro.
La signora Gina ogni volta chiedeva a quel ragazzino sempre indeciso cosa avrebbe
voluto quel giorno ....
Non ebbi mai il coraggio di dirle la verità e continuai sempre a comprare
un etto di mortadella.
Giochi pericolosi
Era un'età in cui tutto era ancora indefinito, tranne la voglia di giocare
e soprattutto di simulare quella violenza a cui avevamo assistito durante la guerra
o quella più fascinosa dei film.
Pistole, fucili e spade le costruivamo da soli, senza pretese, anche se noi avevamo
la fortuna di avere un amico, Fulvio, il cui papà aveva un laboratorio di
falegnameria sulla via Udine, alcuni anni dopo spostato in piazzetta Belvedere.
Le spade richiedevano un legno resistente e abbastanza lungo da ricavarne anche
la parte che doveva funzionare come fine dell'elsa. Fulvio mi introdusse un giorno
in quella che mi apparve subito come la più grande industria bellica che
avessi mai visto: legni di tutte le misure ovunque, già levigati e pronti
solo per essere lievemente ridotti nella lunghezza e inchiodati.
Mentre lui sceglieva i pezzi con cura, separandoli da quelli molto più larghi
a cui erano accostati, io disegnavo due spade con doppia elsa su un foglio su cui
erano segnate le misure di un armadio.
Un sogno.
Segati i quattro pezzi, li inchiodammo e iniziammo subito una piccola schermaglia
che avrebbe anticipato quella ben più cruenta battaglia che avremmo combattuto
contro la banda di via Ruggero Manna.
"Toh, ciapa questo" ... "e ti bechite quest'altro"
erano i commenti ai colpi sferrati ora da me ora da Fulvio.
Furono le stesse parole che usò il padre quando scoprì, irrimediabilmente
rovinati, i pezzi dello stipo che avrebbe dovuto consegnare in giornata.
Ci sorprese in pieno combattimento nel suo laboratorio al piano sotterraneo: ci
chiese con calma di aiutarlo ad addossare il mobile all'unica scala che portava
verso l'uscita, volle vedere entrambe le spade che ci eravamo costruite e si congratulò
prima con Fulvio e poi con me.
Mutò improvvisamente umore, aspetto e linguaggio: infierì su di noi
con entrambe le spade inseguendoci tra nuvole di segatura e orribili bestemmie.
Si fermò dopo una decina di implorazioni di basta, quindi si fece nuovamente
aiutare per liberare l'accesso alla scala. Gli passai davanti e, dopo averlo salutato
educatamente, imboccai rapido quell'unica via di fuga. Raggiunto il piano superiore,
a livello della strada, lo chiamai per nome e quando lo vidi apparire di sotto,
gli lanciai un "brutto magnamerda", prima di darmi a fuga precipitosa.
Mi inseguì fino al quinto piano dove papà, con quella calma apparente
tipica dei ferrotranvieri interpellati sulla prossima corsa al capolinea, contrattò
un equo indennizzo, che il signor Borean accettò considerando anche la corresponsabilità
di "quel altro disgrazià de suo fio".
Il "brutto magnamerda" non entrò nel risarcimento del danno
perché ampiamente ripagato dalla condivisione dei due contraenti sulla mia
natura di "dispossente, mona e farabuto".
La signora Teresa.
Mamma raccontava spesso che la signora Teresa del negozio di maglieria e intimo
sotto casa le chiedeva sempre dove fosse " quel fio bel", riferendosi
a me.
Lo diceva per vendere qualche cosa a mia madre attirandola con piccole lusinghe.
Avevo da poco compiuto sette anni e con altri compagni mi divertivo a scivolare
sul passamano della scala dei Lauri che dalla piazzetta portava a via Ruggero Manna.
Sollevando la gamba il pantalone si lacerò.
Corsi piangendo alla rivendita e chiesi a mamma di fare qualcosa. Era l'unico pantalone
che avessi ed era talmente liso che quello strappo non poteva essere ricucito in
alcun modo.
Mamma andò nel negozio della signora Teresa che le mostrò uno di quei
pantaloncini di filo, con bretelline, che si mettono ai bambini dopo il primo svezzamento:
le avrebbe fatto un buon prezzo considerato che era l'ultimo capo. A "quel bel
fiol" sarebbe andato benissimo.
Mia madre si fece convincere e rientrata nella bottega dove io l'attendevo in mutandine
dietro il bancone mi infilò quei pantaloncini che, a suo dire, mi stavano
benissimo. Sollevai qualche debole obiezione, ma l'ansia di ritornare a giocare
con i miei compagni mi spinse ingenuamente ad uscire con quell'indumento che lasciava
intravedere, forse troppo, quelle che mamma in altre occasioni avrebbe chiamato
"i vrigogni".
Quando, saltellando, raggiunsi la compagnia, qualcuno mi guardò incredulo,
qualche altro si mise a ridere e uno, avvicinandosi e indicando quella protuberanza
goffamente evidenziata dal filato azzurrino, mi chiese dove andassi con quel "cicin".
I singhiozzi che si udirono da via Commerciale alla salita di Gretta fecero accorrere
mia madre come in un film del neo realismo: si rese conto da lontano che quel suo
figlio già svezzato da tempo era davvero troppo grande per poter indossare
ancora "i brachissini 'i picciriddru".
Mi sollevò a stento in braccio, con le punte dei piedi che quasi toccavano
terra, e simile alla pietà michelangiolesca di San Pietro in fuga con il
figlio morto, passando dinanzi la signora Teresa si sentì chiedere "cossa
gaveva quel ometto che pianzeva cussì tanto" ...
Mamma le disse che piangevo perché si vedeva troppo il pipì. I singhiozzi
che mi squassavano il petto impietosirono anche colei che era stata la causa del
mio dolore. Seguì mia madre fino al quinto piano e si riprese a malincuore
quei calzoncini un po' deformati tra le gambine.
Il cinema Belvedere
Da poco era stato riaperto vicino casa il cinema Belvedere, il cui proprietario
era cliente della rivendita e ci conosceva bene.
Entravamo alle tre del pomeriggio, guardavamo una prima volta il film, poi uscivamo
per andare a prenderci la colazione e rientravamo per rivederci altre due o tre
proiezioni.
I film western erano i preferiti, ma anche quelli di cappa e spada e quelli di Tarzan.
Tra i comici le coppie Stanlio ed Olio e Gianni e Pinotto erano le più esilaranti.
Quando veniva proiettato un film d'amore era una giornata di lutto, mentre altre
volte, allettati da manifesti con scene d'azione avevamo la brutta sorpresa di assistere
ad un recital musicale o peggio ad un'opera lirica.
Speravamo sempre che dopo le prime canzoni il film sarebbe continuato con i dialoghi
tradizionali, ma non accadeva mai. Sprofondavamo nelle poltroncine con le mani in
tasca, gli occhi rivolti allo schermo e un odio profondo verso gli attori, il gestore
del cinema e gli spettatori che dimostravano di divertirsi.
Quando assistevamo ad un film piacevole, rientrati a casa ne raccontavamo ogni particolare
mentre mamma ci ascoltava con un eterno sorriso sulle labbra: ci accorgemmo che
aveva imparato a dormire lasciando i denti scoperti.
Le prime scoperte
Mio fratello ed io estendemmo ben presto i nostri confini, passando dal quartiere
alla grande città: imparammo a salire sulle varie linee tranviarie per raggiungere
papà e portargli la colazione.
Col tempo questa nostra abilità crebbe a tal punto di salire sul tram guidato
da nostro padre non alla fermata stabilita, ma in un'altra, a sorpresa.
Confusi tra gli altri passeggeri ci accostavamo tenendoci al di sotto dell'angolo
visuale dello specchio interno che consentiva al guidatore di controllare quanto
avveniva alle sue spalle. All'improvviso ci alzavamo in piedi dietro il sediolino
di guida richiamando all'unisono la sua attenzione e scommettendo se, sobbalzando,
avesse detto "putana eva" o "porca mastela".
Quel giorno le disse tutte, assieme ad altre che non conoscevamo: il tram, superato
il semaforo rosso, si era trovato davanti una jeep militare.
Molta paura, gran vociare di lingue che non riuscivano ad intendersi, qualche minaccia
e un tram trascinato in rimessa con a bordo un tranviere troppo stanco e due bambini
muti.
Al ritorno, passato il portone di casa, fummo inseguiti da un "vaca boia"
di cui ignoravamo il significato ma che ci apparve abbastanza chiaro quando fummo
raggiunti in cima alle scale.
Il telefono azzurro ancora non esisteva.
Forse fu allora che decisero di separarci. Fui imbarcato su un treno e inviato al
confino, in un paese del sud, S. Marco Argentano.
Con me vennero lo zio Dario, implicato in non so quale intrigo amoroso per il quale
dovette fuggire precipitosamente da Trieste, e la zia Franceschina che per tutto
il lungo viaggio non fece altro che chiedergli ragguagli.
Viaggio in Calabria
Partii che non avevo ancora compiuto i sei anni, a novembre del 1946.
Non ricordo il giorno della partenza, ma solo un viaggio attraverso un paese disastrato,
su carri arrangiati per ospitare viaggiatori e tantissime soste in stazioni piccole
e grandi.
Non saprei dire quanti giorni durò. Ricordo solo l'ultima parte del tragitto,
su un autobus verde, che appena arrivato nella piazza del paese fu circondato da
una turba di ragazzi scalzi che vi si arrampicarono per portare le valige dei passeggeri.
Vidi per la prima volta mia nonna e mi colpirono la sua altezza molto ridotta e
i capelli completamente bianchi nonostante avesse poco più di cinquanta anni.
I genitori incautamente le avevano imposto il nome Fortunata. Rimase vedova all'età
di trent'anni con un figlio e quattro figlie.
Lei e il figlio, lo zio Michele, ci aspettavano sulla soglia del bar di proprietà
pronti a trasferire noi e le valige all'appartamento superiore attraverso una stretta
scala di legno.
Attraversai quel breve percorso tra una doppia fila di vasi di vetro pieni di caramelle,
rosse, gialle, bianche, verdi, di confetti lisci e ricci, di liquirizie, di noccioline,
di cioccolatini, mentre mia nonna mi accarezzava, incredula di avere un nipote di
quasi sei anni già adulto. Le arrivavo alla spalla.
Quel bar sarebbe diventato il centro degli interessi più sfacciati per me
e successivamente per i miei fratelli.
Le perdite d'esercizio furono calcolate alcuni anni più tardi: milioni di
carte di caramelle e milioni di pallottole di carta stagnola di cioccolatini, sepolte
per anni sotto una pedana di legno, vennero alla luce durante i lavori di rinnovo
del locale.
Nel conto delle perdite non furono calcolati confetti, liquirizie e piscitelli,
perché privi di carta.
Nella classe prima, alla quale fui precocemente avviato e dalla quale uscii a fine
anno con conoscenze prossime allo zero assoluto, ero molto benvoluto dai compagni.
Anche le loro provvigioni non entrarono mai nel passivo d'esercizio.
Fui fatto risalire nuovamente su un treno che mi riportò a Trieste.
Su e giù per l'Italia
Fu l'inizio di un via vai di arrivi e partenze sulle quali non escluderei una responsabilità
diretta dello zio Dario, ex conduttore delle ferrovie prima della guerra.
In questi viaggi della speranza, a turno, mio fratello Flavio ed io eravamo messi
su un treno con una stecca di sigarette all'andata e un pane da due chili con pollo
intero al ritorno.
Mio zio Michele avrebbe fumato per una settimana e i miei avrebbero mangiato pollo
ruspante per un giorno.
I frequenti cambi di soggiorno, stagionali o annuali, ci costringevano ad usare
lingue diverse: il calabro-lucano quando eravamo al sud, il veneto-giuliano quando
eravamo a Trieste, con grande meraviglia e ilarità di coloro che ci avevano
conosciuto in momenti diversi.
Posso dire che a sette anni mi guadagnai da vivere esibendomi a Trieste in alcune
performance calabro-giuliane nella gelateria Arnoldo, su viale Miramare.
Il personale addetto alla vendita si sbellicava dalle risate sentendo quel putel
che chiedeva con estrema serietà se "gavete nu gelàtu a limòn".
Dopo una avermi fatto ripetere due o tre volte la richiesta mi ricompensavano con
una pallina in più rispetto alla normale dose di gelato.
In età giovanile utilizzai, per stupire alcuni miei coetanei, questa mia
risorsa al momento dell'acquisto delle sigarette presso una tabaccheria gestita
da un'anziana signora meridionale, chiedendole con quell'accento che mi era familiare
se "gavesse le Giubecche".
La signora dimostrò minor senso dell'humour dei baristi di Arnaldo e non
esitò a colpirmi con il primo oggetto che le capitò sottomano, invitandomi
ad andare in "monna" assieme a quei "disgrassia'"
che mi accompagnavano: tali Bearzi Mario e Bicci Elvino.
Le frequenti permanenze al sud facevano sì che io avessi una conoscenza sommaria
dei diversi dialetti che usavamo intercalandovi termini in italiano se non addirittura
parole inventate.
In genere la desinenza "glio" nel dialetto triestino è modificata
in "jo", come nel caso di figlio che diventa fio. Sulla base di
tali deduzioni, all'occorrenza, trasformavo le parole dalla lingua nel dialetto.
Accadde un giorno che mia madre mi mandò in macelleria a chiedere se ci fosse
del coniglio.
Alle spalle del macellaio e della moglie che lo aiutava c'era una fila di conigli,
che non avevo mai visto spellati, e non essendo sicuro che appartenessero alla specie
animale che cercavo, pensai di chiederlo, facendo ricorso a quella volgarizzazione
che l'orecchio e l'abitudine mi consigliavano.
Al mio "ghe xe conìio" il macellaio mi fece notare, con
un atteggiamento di ostentata pazienza, che lui era il signor Obsner (Trieste era
cosmopolita!), quella che gli stava a fianco era la "moie" del
signor Obsner, che io, "el fio del signor Paride", ero l'unico
cliente in quel momento dei signori Obsner e che, di conseguenza, non poteva esserci
nessun signor Conijo nella macelleria Obsner.
Cazzo! Fio andava bene, moie anche! e conìio no: non
seppi cosa rispondere e restai un attimo perplesso a riflettere prima di uscire.
Sulla porta, alle mie spalle, sentii il signor Obsner rivolgersi alla moglie: "quel
fio del signor Paride no sarà miga mona?".
Mio padre, che aveva le sue responsabilità perché non voleva che parlassimo
in dialetto, mi disse che il coniglio triestino non esisteva più, era diventato
anche lui italiano, ma che una volta, "ai tempi dell'Impero, quel vero, se ciamava
cunin!"
Alcune settimane dopo, avendo chiesto del cunin ad una signora Obsner più
nera del solito, mi sentii rispondere con quell'accento duro di chi era nato molto
oltre la linea Morgan di "ndar a czior per kul mi mare!".
I grandi mali e i grandi rimedi
Papà e mamma avevano due modi diversi per affrontare il problema della lingua:
mamma quasi tutte le mattine ci guardava la lingua per stabilire il nostro grado
di salute, papà voleva che a casa tutti parlassimo in italiano.
Una sera rientrati a casa sudati e con l'aria spossata, mamma, che ci aveva a lungo
raccomandato di non saltare per ore intere giocando al porton, ci toccò
prima la fronte per vedere se avessimo la febbre e poi, com'era solita fare, ci
guardò la lingua.
Quando fu il turno di Flavio capii che doveva esserci qualcosa di serio perché
la vidi prendersi la testa tra le mani e lamentarsi con noi per tutti quei salti
che avevamo fatto. In quel momento entrò il babbo.
Gli scrutò la bocca e disse che Flavio aveva due palle in gola grosse come
bobi. Lo spogliarono e lo misero a letto.
Io, approfittando della loro momentanea assenza, scostai un po' le coperte e, vedendo
che le palle di mio fratello erano al loro posto, li feci accorrere gridando che
gli erano di nuovo scese giù.
Papà mi spiegò con quella pazienza tipica dei ferrotranvieri in servizio
che quelle in gola erano le tonsille e le altre, in mezzo alle gambe, i coglioni,
con grave disappunto di mamma che chiamava tutto il complesso "i vrigogni",
al maschile, e "a natura" al femminile.
Dopo alcuni giorni Flavio fu accompagnato all'ambulatorio: un'infermiera lo fece
sedere sulle sue ginocchia tenendolo affettuosamente per la vita, mentre un medico
gli chiedeva nome e cognome. Al Chiase.. gli aveva già estratto le palle
dalla bocca.
Io, sull'uscio, ridevo. Il medico in un attimo mi fu addosso e estirpò anche
le mie prima che potessi chiudere la bocca.
Papà aveva approfittato dell'occasione per togliersi dai coglioni le tonsille
di entrambi i figli.
Certamente l'idea gli era venuta dalla lettura di testi medici, di cui uno, enorme
con una copertina azzurra, dal titolo I grandi mali e i grandi rimedi, era sempre
a portata di mano nel famoso stanzino misteriosamente definito salotto.
Nei giorni antecedenti l'estirpazione delle tonsille lo vedevamo consultare a lungo
quel tomo enorme, a cui talvolta anche noi ricorrevamo per cercare di trovarvi la
forma della mona.
Quando ci scaccolavamo papà, di cui scoprimmo in seguito l'estrema professionalità,
ci mostrava il ritratto di un individuo con due grosse palle cavernose che gli uscivano
dalle narici, dicendoci che ci saremmo ridotti in quel modo se avessimo continuato
ad infilarci le dita nel naso.
Quando commettevamo qualcosa che non gradiva ci paragonava a quell'idiota che, con
la bocca aperta e bavosa, pareva fissarci con occhi illanguiditi e inespressivi.
Anche mio fratello ed io trovavamo una somiglianza vicendevole in quel viso che
ci affascinava per la sua bruttezza.
Non eravamo i soli: mamma, che non apprezzava le aspirazioni culturali del babbo,
soprattutto quando riducevano sensibilmente il bilancio familiare, scorgeva nell'immagine
di quel pover'uomo le sembianze del coniuge.
E non si limitava a pensarlo.
Così, quel grosso tomo, dal titolo pretenzioso, che nello studio di un medico
sarebbe servito solo come reggilibri, assolse a casa nostra la funzione di riferimento
bibliografico per gli epiteti che mamma non osava esternare.
"Va', va', ca mi pari a chiru di grandi mali e grandi rimedi" diceva,
prima che si scatenasse l'inferno.
La prima comunione
La tradizione giudaico-bizantino-cristiana di mia madre prevalse su quella ateo-positivista
del babbo che, a malincuore, accettò di sottoporci alla prima comunione.
Per segnare il tempo che si separava dall'estrema unzione ci regalarono due orologi
svizzeri Cortebért Spirofix con cassa e numeri in oro diciotto carati. Eterni
li aveva definiti l'orefice sotto casa superando i tempi sacramentali.
Fummo vestiti con un completo sgambato blu a doppio petto per presentarci degnamente
al cospetto del Signore e, per distinguerci dagli altri coetanei plebei, fu organizzata
una cerimonia religiosa esclusiva che fece gridare allo scandalo alcune anziane
signore presenti nella chiesa per un supposto matrimonio tra bambini gay.
A metà della cerimonia stramazzai al suolo per il digiuno forzato.
Mi fecero rinvenire in sagrestia spruzzandomi acqua santa sul viso e, sollevato
di peso, fui rimesso a forza sull'inginocchiatoio. In seguito, quando ebbi modo
di sfogliare un libro sulla Santa Inquisizione acquistato da mio padre, mi rividi
in alcune scene di supplizio.
Il festeggiamento prevedeva un giro in carrozza nera chiusa, quelle che a Napoli
usavano per i funerali, e la fermata in un bar a Roiano, dove consumammo tutti brioche
e cappuccino, tranne lo zio Mario, il marito della sorella di mio padre, Wanda,
il quale ordinò due birre: una per sé e l'altra per il cavallo che
ci aveva trasportati.
Una passeggiata a piedi, fino a piazza dell'Unità, e una foto sul molo con
l'esibizione degli orologi svizzeri conclusero la giornata.
Negli anni successivi ebbi altri svenimenti, tanto da far supporre alla zia che
fossi sulla strada della beatitudine. Mi prendeva ogni volta ora una mano ora l'altra
tra le sue supplicando il Signore di lasciarle quel nipote che considerava un figlio,
anche se in forma di surrogato. Quando mi riprendevo chiedevo se il sacramento mi
era stato già impartito, per svenire subito dopo al cenno di diniego della
zia.
Allora il rito imponeva il digiuno dalla mezzanotte. Del mio caso lo zio Dario,
tramite un porporato collaterale di Morabito per parte di madre, interessò
il Vaticano che decise di modificare le norme dottrinali, anticipando ad un'ora
prima della comunione la possibilità di assunzione di pane e acqua.
Mi accontentai, con grande dolore della zia che mi vedeva già martire della
fede.
Una gara ciclistica
L'esperienza di vita tra due culture diverse ci portava naturalmente ad allargare
la cerchia delle nostre amicizie: quando avevamo l'occasione di incontrare a Trieste
coetanei meridionali non ci lasciavamo scappare l'occasione per fare amicizia.
Fu così con Pomodoro. Era un compagno di scuola proveniente dalla Sicilia.
La bicicletta da corsa Legnano con cambio a cinque velocità, sulla quale
mio padre aveva percorso mezza Italia, fu l'occasione per consolidare la nostra
amicizia.
O almeno così pensammo.
Una gara a cronometro intorno a due isolati sul percorso via Boccaccio - via Udine
fu un modo per verificare il nostro nuovo sodalizio.
Capimmo che qualcosa non era andata nel verso giusto subito dopo che il nostro compagno
ebbe imboccato, zigzagando, l'angolo di via Vincenzo Monti in fondo alla via Boccaccio,
là dove si trovava il deposito della ditta di autotrasporti Gondrand.
Vedemmo uscire tutti gli avventori dall'osteria vicina e dirigersi di corsa verso
l'isolato dietro il quale era scomparso alla nostra vista Pomodoro.
Corremmo anche noi sperando che quel trambusto riguardasse qualche anziano del vicino
ospizio di via Gaspare Gozzi caduto per un bicchiere di vino in più.
Il giovane Pomodoro era a terra, accanto al muro dell'edificio, del cui intonaco
arricciato portava impressi su tutto il corpo, come un martire cristiano, i rilievi
in negativo, circondato e compianto da una piccola folla di curiosi.
La ruota posteriore della bicicletta continuava a girare, emettendo un suono stridente,
mentre di quella anteriore non se ne coglieva più la funzione originaria.
In pochi minuti sopraggiunse l'autoambulanza che ripartì a sirene spiegate.
Mio fratello, io e ciò che restava della bicicletta fummo accompagnati da
"poveri fioi" alternati ai "chi sà cossa ghe farà
el pare" ... fino alla fine della salita.
Le spalle piegate dal peso della responsabilità, un passo dopo l'altro, come
in una ripresa al rallentatore, giungemmo dinanzi la porta di casa.
Ormai dovevamo agire in fretta e con lucidità per evitare che nostro padre
si accorgesse della distruzione di un mito: quella Legnano era per lui l'orgoglio
di una vita passata in sella nel Triveneto.
Non avrebbe compreso il nostro rapporto di solidarietà con la Trinacria,
la terra di provenienza del compagno Pomodoro.
Agimmo con rapidità: appena nostra madre aprì la porta, io le balzai
addosso e le misi una mano sulla bocca per impedirle di gridare alla vista del relitto.
In fondo alla stanza, che ci ostinavamo a chiamare salotto, papà sonnecchiava
su una poltrona.
Issammo la bici al suo posto, sul trespolo nel bagno, e nascondemmo la ruota con
i tanti pacchi che ingombrano ogni casa.
La mattina seguente, con papà al lavoro, andammo a contrattare riparazione,
costi e condizioni di pagamento rateali nell'officina del suo amico meccanico.
Al rientro di mio padre dal lavoro la bici era riparata.
Venti rate.
Sacrifici inimmaginabili, creste sulla spesa e vendita di tutto l'usato a disposizione
non bastavano; pensammo che fosse giusto che anche chi aveva provocato il danno
contribuisse alla spesa.
I suoi familiari abitavano nelle case delle Ferrovie dello Stato, dietro la stazione
centrale.
Pensammo di rivolgerci a loro, visto che il figlio era ricoverato in ospedale.
Portammo con noi, in caso di controversie, il Codice Civile che papà aveva
acquistato dopo una contestazione di disturbo alla quiete pubblica per aver tenuto
alto il volume della radio.
Appena si aprì la porta, fummo accolti con un sorriso dalla mamma del ragazzo
infortunato.
Dopo averle letto l'articolo del codice secondo il quale, a nostro modesto avviso,
ricorrevamo gli estremi del danno in colpa, dapprima ci fissò con meraviglia,
poi con crescente stupore e infine ci indirizzò alcune espressioni estremamente
volgari indegne di una donna e per giunta madre.
Ci inseguì fino all'imbocco della via pubblica da dove, rallentando la fuga,
riprendemmo a camminare, con il codice sotto il braccio, come se nulla fosse accaduto.
Il padre generale
Il debito contratto non ci faceva dormire sonni tranquilli: e se il meccanico, visto
che non riuscivamo a pagare le riparazioni, avesse detto tutto a nostro padre?
Dovevamo a tutti i costi ricorrere ad entrate straordinarie.
L'idea fu mia.
La Settimana Enigmistica era la rivista di maggiore spessore culturale e papà
non solo vi era abbonato, ma era un esperto di giochi, autore di rebus, cruciverba
e sciarade sui quali il suo nome era per noi fonte di orgoglio.
Mio fratello ed io ci limitavamo a leggere le barzellette e fu allora che mi venne
l'idea di inviarne una per ottenere la ricompensa promessa dalla rivista in caso
di pubblicazione.
Cercai nel repertorio delle conoscenze interregionali e mi venne alla mente una
che avevo sentito raccontare in Calabria.
Era difficile, se non impossibile, che fosse conosciuta anche a Milano, sede del
settimanale enigmistico.
Raccontava di un ragazzino precocemente avviato al lavoro il quale, passando con
una carriola carica di mattoni dinanzi ad un circolo parrocchiale dove altri ragazzi
stavano giocando, sarebbe voluto entrare, ma temeva che qualche ladro potesse rubargli
la carriola con il suo carico. Un giovane parrocchiano lo rassicurò dicendogli
che Dio era sempre presente per proteggere noi e le nostre cose.
Una volta entrato, il parroco, vedendolo per la prima volta e per prevenire un possibile
comportamento scorretto gli chiese se fosse a conoscenza che Dio era sempre con
lui.
Il giovane operaio rispose prontamente che ne era a conoscenza, ma che per esigenze
di lavoro lo aveva lasciato momentaneamente fuori a tenergli d'occhio la carriola.
Passarono alcune settimane e, visto che non arrivava l'attesa ricompensa, decisi
di sollecitare una risposta inviando alla direzione una lettera senz'altro ingenua,
ma con un tono tra l'indignato e il minaccioso.
La risposta non si fece attendere.
Vidi la busta indirizzata al generale Paride Chiaselotti. Con un filo di speranza
unita alla preoccupazione di spiegare a cosa potessero servire quei soldi contenuti
nella busta, cercai di leggere la lettera che mio padre teneva in mano.
Fu un attimo.
Schiaffo e lettera gli scapparono della mano contemporaneamente, ma mentre si abbassava
a raccogliere il foglio ero già fuori della portata del suo braccio.
Lesse a mia madre, attribuendole la colpa originaria, il contenuto della missiva
che mi meravigliò moltissimo, trattandosi di una lettera che avevo spedito
alla rivista e non a mio padre... Pensai ad un errore postale.
Tolte una decina e più di porca mastela, riuscii finalmente a capire: la
direzione non aveva mandato alcuna ricompensa, bensì aveva rindirizzato a
mio padre la lettera di sollecito, nella quale minacciavo serie ritorsioni da parte
di un genitore che per l'occasione e per necessità economiche avevo elevato
al grado di generale dei carabinieri.
Il debito fu comunque saldato. E saldato era anche il telaio della bicicletta, come
dopo tanti anni scoprì mio padre, che già nonno, volendo fare un regalo
al nipotino pensò di vendere quella bici di cui andava così orgoglioso.
Si rivolse alla persona sbagliata: il meccanico che l'aveva saldata.
Ne ricavò poche lire.
Una scatola di toscani e alcuni "porca mastela" furono l'epilogo
di una gloriosa vita sportiva.
Mio fratello Flavio ed io, già sposati con prole, per alcuni giorni evitammo
di telefonargli.
L'attesa di una sorella
Papà capì subito che due figli maschi erano un serio rischio. Chiamò
mamma in disparte e la convinse che aveva letto su una rivista come fare una femmina:
ci misero tutta la buona volontà, mio padre le regalò anche un'enciclopedia
della donna moderna.
L'intero condominio partecipò alla gravidanza, dalla portinaia che, trasformati
i sospiri originati dalla fame in rutti acidi per l'eccessivo consumo di brodi,
le raccomandava di mangiare molta verdura cotta se non voleva un terzo maschio,
a me che cercai sul vocabolario tutti i nomi di genere femminile da Aspirina a Zanzariera.
Tutto inutile.
Mio fratello Flavio era stato mandato in Calabria per timore che potesse aprirgli
gli occhi come aveva fatto con me.
Io, al momento del parto, fui allontanato, su consiglio dell'ostetrica, con la scusa
della necessità di avere per l'occasione una bottiglia di Stock.
In quello stesso momento madre e figlio rischiarono di morire dissanguati: lei per
il parto ed io perché inciampando caddi con il polso sul collo della bottiglia
in frantumi.
Salii sperando di non essere visto e mi chiusi in una stanza con un fazzoletto legato
al polso.
La signora Domenica, seguendo le tracce di sangue, suonò alla porta. In quel
momento un vagito distolse l'attenzione da me: era nato il terzo figlio maschio.
Ce la cavammo entrambi, lui con una ripulita e un colpetto sulle spalle, io con
una fasciatura così stretta che i lembi della ferita dovettero ricongiungersi
a forza.
Nella scelta del nome suggerii di chiamarlo Zorro; per accontentarmi fu chiamato
Diego.
Per i primi giorni evitarono di farlo vedere a nostra madre perché era ancora
debole: il terzo giorno glielo misero in braccio. Mia madre svenne e dovettero chiamare
un medico che ordinò una cura di calcio, ferro, sodio, fosforo da aggiungere
ad ogni poppata, cosa impossibile visto che non era allattato artificialmente.
Fortunatamente dopo pochi giorni nostro fratello Diego cominciò ad assumere
sempre di più le sembianze di un bambino, ma mai quelle di una bambina. Papà
non volle ammettere di aver sbagliato per la seconda volta.
Si dimostrò subito sveglio, anche grazie al mio aiuto.
Mamma dovette riprendere subito la sua attività nel negozio tabacchi, valori
bollati e giornali, papà si recava al lavoro e il piccolo fu affidato alla
zia Maria, vedova del marito Giovanni.
Passati alcuni mesi e al rientro di Flavio da San Marco, Diego, nei pomeriggi di
sole, era affidato a noi, che per abituarlo alle insidie della vita, fingendo che
la carrozzina ci fosse sfuggita di mano, correvamo lungo la discesa di via Torquato
Tasso per anticiparne l'arrivo in fondo alla strada.
Mamma, che aveva letto l'oroscopo su Crimen, un giornale che la affascinava per
i cruenti fatti di cronaca che vi erano raccontati, diceva sempre che Diego era
nato con la camicia.
Noi possiamo confermarlo.
Testimoni oculari
Con la scusa di dover accudire il pargolo, percorrevamo tutta la via Udine, fermandoci
a curiosare qua e là.
Durante una di queste oziose passeggiate ci accostammo ad un capannello di persone
intente ad osservare qualcosa che avveniva nella galleria di piazzetta Belvedere,
un tempo rifugio antiaereo nel quale, durante la guerra, varie volte avevamo trascorso
ore di attesa.
Facendoci largo e chiedendo educatamente permesso agli astanti, giungemmo Flavio,
io e l'infante Diego, dinanzi all'apertura dell'antro.
Abituati gli occhi all'oscurità, scorgemmo due figure: un vecchio in posizione
eretta e, di fronte a lui, inginocchiata, una vecchia che gli arrivava, con la testa,
all'altezza della cintura.
Non capimmo bene cosa stesse avvenendo, ma ritornati a casa annunciammo con grande
enfasi a mamma, alla signora Domenica, a zia Maria e ad altre signore in garbata
conversazione nell'atrio di casa che nella galleria avevamo visto un signore che
aveva messo il pipì in bocca ad una signora.
Mamma chiese scusa per noi e ci comunicò con il solito linguaggio mimico
gestuale dei muscoli facciali che dovevamo stare zitti, salire subito a casa e aspettarla
in cucina. Non ci sfuggì il sospiro della portinaia, il cui marito era da
tempo ricoverato in ospedale, e quello delle altre due amiche, una ancora nubile
e l'altra vedova.
La mattina dopo, mio fratello Flavio ed io eravamo davanti al direttore dell'ospizio
di via Gaspare Gozzi a ripetere per filo e per segno ciò che avevamo visto,
ma precisando che "la pipì quel signore non l'aveva fatta"
come avevamo detto in un primo tempo.
Diego, ancora troppo piccolo per capire cosa fosse accaduto, non fu coinvolto nella
turpe vicenda.
Papà chiese al direttore di stare più attento ai suoi anziani ospiti
e noi uscimmo convinti di aver compiuto una buona azione.
Qualche anno più tardi, quando compresi la duplice funzione che può
avere l'organo maschile, pensai che mio fratello ed io non eravamo gli unici mona
in quella casa...
Pisdrul
Diego era di corporatura minuta. Aveva occhi neri e due denti a paletta che lo facevano
somigliare al coniglietto di pezza che si portava sempre dietro.
Nel condominio di via Udine la signora Sossi spesso confondeva i due esserini e,
prendendolo in braccio, gli rivolgeva teneri appellativi, "picinin mio, bel
cicin, putelin de la mama, strazetta mia", alternando baci, abbracci,
piccoli morsi sul viso e sulle mani, succhiate sulle gambine, strette con ardori
improvvisi. Quando lo posava nuovamente a terra mamma doveva rimetterlo a posto
e controllare che non avesse niente di rotto.
Flavio ed io cominciavamo con ghiri ghiri 'n gaia, poi esasperavamo le affettuosità
fingendo di essere la signora Sossi e una sua ipotetica amica, che si passavano
di mano in mano quel povero picinin.
Diego prima rideva da matti, poi scoppiava in un pianto dirotto dopo dieci minuti
di tale trattamento.
Quando papà rientrava dal lavoro, mamma gli raccontava ciò che avevamo
fatto aggiungendo che gli insegnavamo anche parolacce: pisdrulin, binbin, putanin
e anche magnamerda, stronzo e testa de cazo.
Papà, si toglieva lentamente la giacca, si rimboccava le maniche della camicia
e assumeva il ruolo del braccio violento della mamma.
Il vizio del gioco
Gli anni erano passati in fretta e Diego, sopravvissuto miracolosamente alle più
rischiose imprese, imparò presto a camminare, ma non a parlare, forse a causa
di qualche trauma pregresso.
Per ovviare a questo inconveniente, che rendeva incomprensibili le sue esternazioni,
papà e mamma decisero di vestirlo da sud tirolese, cercando di far intendere
ai vicini che sapesse parlare l'austro ungarico.
A dire il vero ci fu un momento in cui fummo convinti anche noi che papà
conoscesse l'ungherese, quando iniziò le prime strofe di una filastrocca
con le parole Isat, isat olomom... E una volta imparata cercammo di insegnarla anche
al piccolo Diego, causando involontariamente una serie di equivoci che spinse una
nostra vicina a suggerire a mamma di "alontanar quel povero putel dai do fradei
più grandi che no lo fa creser".
Fu così che, con l'intenzione di allontanarlo da una fonte di pericolo, la
nostra, il piccolo finì dalla padella nella brace: papà decise di
prendersi direttamente cura di lui e nei momenti in cui era libero dal servizio
cominciò a mettergli in testa strane idee.
Oltre alle parole incomprensibili, lo udivano spesso pronunciare uno, due o ics.
La vicina disse a mamma che le sembrava che il piccolo desse i numeri e in effetti
scoprimmo che papà gli aveva insegnato a giocare la schedina.
Il piccolo, che a stento riusciva a salire sulla sedia, fu visto in più occasioni
recarsi al bar sotto casa e porgere al banconista, sollevandosi sulle punte dei
piedi, una schedina anonima, così come gli aveva insegnato il padre, convinto
che un giorno o l'altro sarebbero diventati milionari.
Al contrario degli altri bambini che per addormentarsi volevano raccontate fiabe,
il piccolo Diego si addormentava contando quattrini come pecore.
Per questa sua particolare perspicacia verso la politica monetaria e per il fatto
che ancora era troppo piccolo per poter realmente competere con i grandi economisti
gli fu consegnato un salvadanaio della Cassa di Risparmio in cui infilava giorno
per giorno monete di piccolo e medio taglio.
Diego non si accorse che da quel suo piccolo forziere metallico, le cui chiavi erano
in possesso dell'istituto di credito presso il quale il contenuto era periodicamente
depositato, riuscivamo a sottrarre, con l'ausilio di due ferri da calza, parte dei
suoi modesti risparmi.
Era un'operazione complicata, da fare in due: uno di noi teneva il salvadanaio sollevato
in modo che l'altro potesse vedere dal basso ed estrarre le monete, tenendo bloccati
i numerosi fermi a snodo che ne impedivano lo svuotamento in caso di capovolgimento
del contenitore.
Nello stesso tempo chi reggeva la cassetta doveva stare attento all'arrivo del fratellino
che, nonostante l'età, diffidava istintivamente di noi ogni qualvolta ci
vedeva entrare in cucina.
Nell'operazione Bin-Bin, che prese il nome dall'appellativo scherzoso con cui chiamavamo
il fratellino, si trovarono coinvolti un giorno anche papà e mamma, che dovendo
acquistare dei valori bollati e non avendo la somma sufficiente, cercarono inutilmente
di aprire il piccolo forziere.
Alla presenza di Diego, che si era reso conto della necessità di quel prestito
forzoso e nutriva cieca fiducia nei confronti del padre con cui condivideva la speranza
di un futuro quanto improbabile arricchimento con la Sisal, ci facemmo avanti noi
che, con pochi e abili movimenti, confortati dagli amorevoli incitamenti della mamma,
riuscimmo ad estrarre le banconote necessarie, sotto lo sguardo esterrefatto di
Diego e del babbo.
Dal momento del reintegro della somma la scatola cambiò collocazione e da
quel giorno il fratellino ci seguì in ogni nostro movimento.
L'operazione Bin-Bin fu sospesa a tempo indeterminato.
La morte di zia Maria
Sono stato per molto tempo in dubbio se inserire nella storia l'avvenimento che
sto per narrare e benché mi sforzi di inquadrarlo nelle naturali vicende
di cui ognuno di noi può essere protagonista, non posso fare a meno di provare
un certo imbarazzo nel parlarne.
Flavio era sceso in Calabria, in uno dei tanti viaggi organizzati a turno per ciascuno
di noi: non sarebbe ritornato che agli inizi dell'estate, alla chiusura della scuola.
Diego, di soli due anni e mezzo, era affidato alla zia Maria e a me nei momenti
di svago e riposo.
Ci eravamo da poco coricati in una sera di fine gennaio, ma nonostante il freddo
ci scoprivamo per giocare a Tarzan nella giungla.
Io fingevo di essere Tarzan, Diego la piccola Cita che da un momento all'altro,
precipitando dalla sponda del letto, poteva finire nel grande fiume infestato dai
coccodrilli.
Il gioco veniva ogni volta interrotto dalla zia che ci sgridava, rimettendoci sotto
le coperte, per poi ricominciare appena si accingeva ad uscire.
La terza o quarta volta sentii la zia lamentarsi con mamma, che era appena rientrata
dal negozio, della nostra eccessiva vivacità e, subito dopo, di un forte
dolore che avvertiva alla testa.
Diego, troppo piccolo per capire il dramma che stava avvenendo in cucina, mi chiedeva
di continuare la nostra avventura, mentre io, che speravo che quel lungo silenzio
fosse interrotto come altre volte da una punizione che tardava ad arrivare, capii
che mia zia era morta o stava morendo.
Lo capii dalle ripetute invocazioni di mamma che cercava di farla rispondere e non
sapendo né potendo fare nulla, mi rifugiai sotto le coperte, dicendo a Diego
che dovevamo stare assolutamente in silenzio e nascosti per non farci scoprire dagli
indigeni che ci stavano dando la caccia.
Fino a quando non si addormentò continuò a chiedermi se gli indigeni
erano andati via.
Sentii rientrare mio padre, la sirena dell'autoambulanza, le voci concitate dei
vicini.
Qualcuno aprì la porta della nostra stanza e tranquillizzò gli altri
affermando che dormivamo.
Il giorno dopo seppi che mia zia Maria, vedova Zorzon, era morta.
Avrebbe compiuto 53 anni a settembre.
Il faro della Vittoria
Papà, costretto otto ore al giorno a percorrere sempre le stesse strade di
Trieste, quando era libero dal lavoro sentiva il bisogno di evadere dal solito ...
" tram tram" quotidiano.
Ci portava al faro.
Salivamo fino alla stanza dove una lampada gigante segnalava ai naviganti che erano
giunti nella grande città italiana, anzi del territorio libero di Trieste,
o meglio in quella che un tempo era la porta sul mare dell'Impero Austriaco e che
sarebbe dovuta essere ...
Tornavano tutti indietro.
Papà, assumendo le sembianze del marinaio scolpito sul basamento voleva che
ci affacciassimo sul balcone in ferro che si protendeva sul vuoto. Inspirava a pieni
polmoni la brezza marina e quando sentiva un odore di crauti andati a male, capiva
che ci stavamo cagando sotto dalla paura e ci faceva rientrare.
Poi andavamo a mangiare nella solita osteria di Barcola la solita frittura di calamari
che a giudizio di nostro padre era ogni volta più buona del solito ...
Oltre ad esserci cagati vomitavamo anelli di calamari dall'uscita fino a casa.
Papà, mentre apriva il portone, ci prometteva che se fossimo stati buoni
ci avrebbe portato di nuovo al faro e alla trattoria ...
... Diventammo talmente cattivi che pensarono di rivolgersi ad un esorcista.
La crescita
Certamente nei miei vari soggiorni a S. Marco Argentano l'assorbimento di zuccheri,
uova, maccheroni fatti in casa, focacce al pomodoro, carni bianche e rosse, fichi
secchi, dolci di ogni genere, spesso integrati da un bicchierino di Ferro China
Bisleri e da un cucchiaio di marsala su cui era posato un torlo d'uovo fresco, furono
all'origine di uno sviluppo fisico che mi faceva apparire più grande rispetto
alla mia età anagrafica.
È necessario che mi soffermi un attimo su questo aspetto che sarà
motivo di vicende curiose.
Il bar di mio zio era per tutti noi, piccoli e adulti, fonte di sostentamento e
di un certo benessere considerati i tempi e la miseria in cui versavano molte altre
famiglie.
Mio zio Michele, orfano di padre e con una madre da mantenere, aveva avviato una
piccola attività commerciale in un locale di proprietà, iniziando
a vendere caffè alla napoletana, qualche liquore, soprattutto anice, confetti
e poche altre cose che allora rappresentavano qualcosa di più del superfluo.
Il fatto che questa attività si svolgesse in una delle due piazze del paese,
quella da cui partivano dapprima i postali e poi gli autobus che collegavano il
paese con la vicina stazione di Roggiano, rappresentò la fortuna di mio zio,
e di conseguenza anche la nostra, perché in breve tempo il bar divenne luogo
di sosta e di consumo di numerosi clienti.
La nonna e i suoi figli, cioè mamma e zii, possedevano la casa posta al piano
superiore del bar collegata ad esso da un'apertura con una scala e una botola in
legno, nonché un altro magazzino dato in affitto e un piccolo terreno di
solito coltivato a grano, con qualche albero da frutta, olivi e una vigna.
Ciò comportava che non mancasse mai ciò che poteva servire per quel
modesto consumo alimentare che i tempi imponevano.
Col tempo e con le migliori condizioni di vita anche le entrate del bar si fecero
più cospicue.
Rispetto alle limitate risorse che avevamo a disposizione a Trieste, S. Marco Argentano
ci sembrava un piccolo paradiso: bastava infilare una mano in un cassetto, in una
cassa, in un contenitore di dolciumi del bar per tirarne fuori quello che altrove
potevamo avere solo con i soldi e a volte neppure con essi.
Ecco perché, ripensando al rapido mutare delle condizioni di vita che si
verificava ogni qualvolta giungevamo da una località all'altra, definivamo
quegli spostamenti i viaggi della speranza e ogni volta che uno di noi arrivava
alla stazione centrale di Trieste era accolto con stupore dagli altri per il rigoglioso
e appariscente sviluppo, mentre egli a sua volta restava indifferente alla vista
dei congiunti immutati nell'aspetto e nel peso o, addirittura, più magri
di come erano stati lasciati.
Il pacco dono
L'azienda per la quale lavorava mio padre, l'ACEGAT, un acronimo che indicava i
campi di attività di cui essa si occupava: acqua, elettricità, gas
e trasporti urbani, organizzava per l'Epifania un piccolo spettacolo, al termine
del quale erano consegnati dei pacchi dono ai figli dei dipendenti purché
di età non superiore ai dodici anni.
Mio fratello Flavio aveva già superato l'età stabilita, io avrei compiuto
dodici anni la settimana successiva, Diego aveva quasi quattro anni.
Ci mettemmo sotto il palco, per essere tra i primi a ritirare la strenna aziendale.
Eravamo tutti un po' emozionati e in trepida attesa: papà confidava in un
gioco di costruzioni, mamma in due sciarpe che potevano servire un po' a tutti,
Diego era convinto che quell'enorme involucro bianco fosse pieno di soldi, io speravo
che ci fossero album da colorare e un libro di Salgari sul Corsaro Nero, Flavio,
che non poteva aspettarsi niente per sé, pregava perché non ci fosse
niente di tutto ciò che ci aspettavamo.
A fine spettacolo papà e mamma, quasi fossimo al nastro di partenza, ci gridarono
di salire sul palco.
Afferrai per mano Diego e lo trascinai per le scalette in legno che portavano sul
tavolato dove erano accatastati centinaia di pacchi dono. Il presentatore annunciò
l'arrivo del primo fortunato. Essendo gli unici ad essere vicini a lui, mi chiedevo
perché parlasse al singolare.
Non ebbi il tempo di darmi una spiegazione che mi ritrovai con un solo pacco in
mano e l'invito a scendere dall'altra parte, mentre alle mie spalle altre decine
di bambini aspettavano in fila il loro turno.
Feci notare che anche a mio fratello Diego spettava il dono e, con una sollecitazione
ad andarmene in fretta, mi fu spiegato che quello che avevo in mano era il pacco
di mio fratello.
"E il mio?"
Lo dissi ad un signore che stava perdendo già la pazienza, tanto che pensai
fosse una condizione per essere assunti nell'ACEGAT e, in una marea di bambini che
ormai premevano da tutti i lati, mi resi conto che li sovrastavo di almeno due palmi
e che il presentatore doveva sollevare tutto il braccio per battermi quei colpetti
sulla spalla che significavano: "vai, vai che non abbiamo tempo da perdere."
Con la mia richiesta avevo sollevato l'ilarità generale mentre papà
gridava al presentatore che non avevo ancora dodici anni.
Lo ripetei anch'io, posando il pacco a terra e appoggiando le labbra sugli indici
incrociati in una forma di giuramento che avevo appreso a San Marco Argentano.
Un dubbio dovette sorgere all'addetto alle consegne, perché smise di ridere
e con un gesto della mano fermò l'arrivo degli altri bambini che si erano
affollati sulle scale. Poi, con l'aria di uno che cercava di capire se si trattasse
di uno scherzo o di un tentativo di avere un pacco in più, con le mani sui
fianchi, si chiese a voce alta se fosse mona lui o quel giovanotto che gli
stava di fronte.
Il mento un po' allungato e proteso in avanti, la bocca socchiusa e lo sguardo annebbiato
per il rapido susseguirsi degli eventi, stavo rinunciando a quanto mi spettava.
Mi avviavo a scendere quando incrociai lo sguardo di mamma che con la solita mimica
facciale mi indicava un pacco a terra vicino alle mie gambe.
Compresi la furbizia.
Presi quel pacco, dimenticando che era quello che mi avevano consegnato per mio
fratello, e mi precipitai felice verso le scalette che portavano nella platea.
Mia madre, senza dire una parola prese per mano Diego, risalì sul palco e
si fece consegnare come se nulla fosse accaduto un secondo dono.
Volevamo allontanarci al più presto da quella bolgia, ma non riuscivamo a
trovare papà.
Alla fine lo vidi, semi nascosto tra le decine di bambini che lo circondavano, reclamare
il regalo dal presentatore, un suo collega, che stanco di discutere prese un pacco,
glielo mise in mano con violenza e gli disse di andare in mona, lui e suo figlio.
All'uscita, Flavio ed io stringevamo soddisfatti quella che entrambi, per motivi
diversi, consideravamo una fortuna insperata, mentre papà si ostinava a chiedere
a mamma, che teneva in braccio Diego e il suo regalo, perché gli avesse detto
che il collega aveva proprio ragione...
Lo zio Aleardo
Durante uno dei numerosi viaggi a S. Marco Argentano mi accompagnò un cugino
di mia madre, Aleardo, da me chiamato rispettosamente zio, maestro di clarinetto
al liceo musicale Tomadini di Udine.
Non avevo ancora compiuto quattordici anni e ne dimostravo forse diciotto, non solo
per l'altezza e la fronte, che già allora appariva precocemente stempiata,
ma anche per un completo grigio gessato acquistato a rate dai miei genitori da Beltrame.
Viaggiavo con un biglietto a costo ridotto, ma non avevo nessun documento che attestasse
la mia età.
Al momento della verifica dei biglietti vi fu una contestazione del controllore
che, facendomi alzare e girare su me stesso quasi cercasse di stabilire l'età
anagrafica oltre che dall'altezza anche dalla taglia del vestito, ebbe un vivace
scambio di battute con lo zio musicista.
Questi, già seccato per il ruolo di accompagnatore di un giovane insofferente
e curioso, che spesso si allontanava dallo scompartimento mettendolo in ansia per
il timore dei pericoli cui poteva andare incontro, dopo aver cercato invano di spiegare
e farmi spiegare che realmente ero un tredicenne molto sviluppato, si qualificò.
Di solito accadeva che chi ricorreva a questa estrema risorsa, accompagnata dal
fatidico lei non sa chi sono io, era, o millantava di essere, un deputato, un ministro,
un prefetto o chissà chi.
Mio zio, sollevandosi di scatto, aprì un astuccio di cuoio che teneva nella
reticella a fianco della valigia e, brandendo la canna del suo strumento musicale
come un arma, si rivolse al controllore esterrefatto dicendogli che era un maestro
di clarinetto!
L'atteggiamento un po' esaltato, gli occhi sbarrati, il riporto di capelli che l'indignazione
e la corrente d'aria avevano scomposto, il viso proteso in avanti e l'aspetto generale
che, per lunga consuetudine di estenuanti viaggi da nord a sud dell'Italia, lo faceva
apparire alquanto trasandato, impressionarono il controllore.
Questi, facendo scorrere lo sguardo dallo strumento che lo zio teneva sollevato
sopra la testa, agli occhi, e poi giù lungo il gilet sbottonato, ai calzoni
aperti sul davanti, fino alle calze di lana bianche, indietreggiò fino alla
porta dello scompartimento senza profferire parola e prima di scomparire nel corridoio,
balbettò qualcosa che interpretai come una supina e incondizionata accettazione
delle affermazioni dello zio sull'età del suo giovane compagno di viaggio.
Per tutto il resto del tragitto non fummo più importunati e ogni nuovo controllore
che sostituiva il precedente, passando davanti il nostro compartimento, faceva un
rapido cenno con la mano come a farci capire che era tutto a posto.
"E 'cchi cazzu!" fu l'unico commento all'episodio di mio zio Aleardo,
maestro di clarinetto.
Il resto del viaggio filò liscio come l'olio e anch'io non mi allontanai
più dallo scompartimento.
La formazione culturale
Nonostante all'epoca non esistesse l'istruzione obbligatoria, dopo la scuola elementare
papà decise che avremmo dovuto tutti studiare fino ai più alti gradi
dell'istruzione: in casa il riferimento culturale era lui che vedevamo come un mostro
di conoscenze.
Aveva frequentato le scuole di avviamento professionale, l'equivalente delle medie
attuali, e di tanto in tanto era andato a seguire alcune lezioni all'università
della terza età.
Flavio rappresentò dall'inizio un ottimo investimento.
Fino dalle scuole elementari si distinse per il modo in cui affrontava la scuola:
entrava diritto in aula, mentre io mi fermavo a guardare dalle finestre del seminterrato
gli indiani dell'esercito inglese, con il loro caratteristico turbante, mentre facevano
il pane.
Tornati a casa Flavio si metteva a fare i compiti che presentava orgoglioso a papà
al rientro dal lavoro, io davanti la rivendita, inginocchiato a terra, disegnavo
con il gesso l'indiano che avevo osservato.
Soldati, pellerossa, cow-boys erano la mia passione, non solo li disegnavo dovunque,
ma mi inventavo anche travestimenti che in qualche modo potevano avvicinarmi a loro.
Passarono gli anni e finita brillantemente la scuola media, con un prestigioso attestato
rilasciatogli dal sindaco in persona, Gianni Bartoli detto Lacrima, Flavio fu iscritto
al liceo scientifico, dove io lo seguii l'anno successivo.
Avrei voluto scegliere un'altra scuola, il nautico perché, cominciando le
scuole a ottobre, avevo ancora fresco il ricordo dei bagni estivi, o una scuola
artistica, ma nessuno ne conosceva l'esistenza.
Considerato il mio profitto non brillante qualcuno, non si seppe mai chi, pensò
che Flavio mi sarebbe stato di aiuto.
Gli feci tutti i disegni per l'intero corso di studi e anche qualche tema d'italiano,
visto che per lui i temi diventavano problemi, nel vero senso della parola: scriveva
come se stesse svolgendo un compito di matematica.
Se eccedevo in qualche espressione mi chiedeva di dargli una motivazione logica
a quello che avevo scritto, anche nel caso di un titolo come "Immagina di volare
con i pesci."
Quando io avevo bisogno di qualche spiegazione di matematica rispondeva che ero
troppo mona per capirla.
Fu così, che poco alla volta, mi resi conto che ero stato iscritto al liceo
come pezzo di ricambio.
Ormai era troppo tardi per tornare indietro e così superai il primo, il secondo
anno e il terzo con le mie forze.
Al quarto anno cominciai a rendermi conto che matematica, fisica, scienze e filosofia
erano una palla al piede alla mia creatività e pensai di crearmi una scuola
su misura.
Fui, se così si può dire, un antesignano dell'esperienza delle classi
aperte: smontai letteralmente la porta togliendola dai cardini, ma dimenticai di
avvertire il docente dell'iniziativa didattica. Le vecchie abitudini sono dure a
morire.
Ancora legato alla scuola tradizionale, non si rese conto che sarebbe bastato lasciare
la maniglia facendo cadere la porta e, invece, cercando invano di trattenerla, fu
trascinato rovinosamente a terra.
L'innovazione metodologica non fu apprezzata nel suo giusto valore, ma fu equiparata
ai tanti volgari atti di vandalismo a cui si lasciano andare gli imbecilli.
Mio padre, convocato dal preside, si rese conto dal colloquio con i vari docenti
che suo figlio non era affatto stupido, anzi la sua intelligenza vivida lo spingeva
a precorrere i tempi.
Era vero.
Nonostante la fotocopiatrice non fosse stata ancora inventata riproducevo le varie
architetture che accompagnavano le tesine di storia dell'arte con metodi estremamente
innovativi: lastra, lampada, foglio e matita per la prima impressione, carta testurizzata,
foglio con disegno, strofinamento di matita morbida per la seconda impressione,
sfumino e ritocco finale. Dieci minuti per disegno a duecento lire ciascuno.
La fotocopiatrice riuscirà ad abbassare costi e tempi di lavorazione, ma
a scapito della qualità del prodotto che con me restava di livello medio
alto.
Anche in questo caso l'inventiva non fu apprezzata: l'insegnante di storia dell'arte,
professor Dalena si chiese a lungo da dove venissero quei cloni e chi ne fosse l'autore.
Non feci in tempo a innovare la valutazione docimologica. Fui bocciato con il metodo
tradizionale espresso in decimi: due, tre, quattro, quattro.
Non posso escludere che nell'attribuzione del due in matematica il professor Poli
possa essere stato influenzato da una calunnia che circolò a lungo negli
ambienti scolastici e cioè che fossi io l'autore di uno scritto anonimo dal
titolo Vite de li nostri eccellentissimi professori, dal contenuto boccaccesco,
nel quale la parte che riguardava la sua biografia faceva riferimento alle lezioni
sui primi due multipli di tre tenute nei bordelli di via Cavana.
Contribuirono all'esito infausto del mio corso di studi anche vari giorni di assenza,
con i quali di fatto rivendicavo il diritto ad una estensione del tempo libero non
nelle sole ore pomeridiane, bensì anche in quelle antimeridiane.
Io e alcuni compagni creammo un primo comitato di lotta per un movimento di liberazione
nazionale, ma la proposta politica restò sempre minoritaria.
Mario Bearzi fu l'unico a condividere il progetto.
I docenti, non avendone colto la portata e le potenzialità, bocciarono anche
lui.
Del movimento del '58 non esiste più traccia: esso fu soprattutto l'intuizione
di due coraggiosi che, tra un bianchetto in Tergesteo e una vasca sul corso, non
vollero mai giungere a compromessi con le autorità scolastiche e fino all'ultimo
giorno cercarono ancora proseliti dinanzi l'ingresso della scuola.
Subito dopo il fischio del capostazione, appena il treno che mi portava in Calabria
si fu messo in moto, mamma, come le avevo chiesto di fare, spiegò a papà
che ero stato bocciato.
Lo vidi da lontano correre per un po' dietro il treno gesticolando con un affetto
che non gli avevo mai conosciuto. Richiusi il finestrino e prima di entrare nello
scompartimento pensai a lungo a quel modo insolito di salutare con la mano posta
di taglio.
Guardai per precauzione in fondo al corridoio e accostai le tendine.
Rividi mio padre alcuni anni più tardi, dopo aver conseguito da privatista
il diploma di maturità artistica.
Le origini dei Chiaselotti
Ogni qualvolta uno di noi commetteva qualche birichinata era immediato il paragone
con lo zio Marcello, il fratello di papà.
Ogni tanto veniva a trovarci: era sempre per una visita breve e, soprattutto, per
un bicchiere di Valpolicella, la dose che mamma gli versava.
Quando parlava con lei era difficile che si intendessero: ad un italianissimo "mi
pare" di mia madre lo zio rispondeva accigliato cosa c'entrasse mio
nonno nel discorso. Parlava e ragionava sempre e solo in triestino e se, talvolta,
si lasciava andare a qualche espressione ai confini della linea Morgan, era solo
per rafforzare la sua visione sul mondo femminile: "moie e scova drio la porta".
Spesso un "cossa?" segnava lo spartiacque linguistico in un dialogo
a metà tra il formale e il surreale.
Non so dire se fosse simpatico o meno, era di poche parole e sorrideva raramente.
Non ricordo molto di lui tranne che aveva i capelli e una bella barba.
Non so cosa facesse esattamente, ma sentivo dire che per un certo periodo aveva
svolto servizio di guardia giurata presso non so quale azienda.
Una sera venne a casa con una vistosa fasciatura alla testa e ci disse che era stato
aggredito alle spalle e colpito con una spranga di ferro.
Mamma era convinta che il colpo fosse stato frontale, causato da una caduta a terra
per un bicchiere di vino di troppo.
Spesso era reduce da qualche intervento operatorio che affrontava con molta disinvoltura.
Mamma per risparmiare un bicchiere di Valpolicella gli diceva che forse era meglio
evitare l'alcol, ma lo zio Marcello con il suo solito cossa? , ripetuto ad
ogni consiglio, vuotava l'unica bottiglia piena presente in casa.
Papà ogni volta che, tornato dal lavoro, lo trovava seduto a tavola mi mandava
all'osteria a prendere un litro di Valpolicella che riponeva nello stipo degli attrezzi,
accanto all'acqua ragia.
Zio Dario raccontava del fratello di mio padre un episodio che sintetizzava molto
bene i suoi modi spicci e una visione un po' cinica della vita.
Mio nonno paterno Antonio, che morì prima che io nascessi, era da tempo ricoverato
in ospedale. Papà e lo zio Marcello si recavano a trovarlo a turno e l'ultima
sera che si diedero il cambio nell'assistenza capirono che non sarebbe vissuto a
lungo.
Il mattino dopo zio Marcello suonò di buon'ora a casa nostra e sollevando
la testa per scorgere chi si fosse affacciato dal quinto piano dove abitavamo gridò
un laconico avviso di morte: "el xe andà".
Fu così che papà seppe che suo padre Antonio era morto.
Era un calzolaio di Visco, in provincia di Udine, che si sposò con Giulia
Tranquillini a Trieste.
Degli altri fratelli di papà avevamo solo sentito parlare, mentre l'unica
sorella, la zia Wanda era spesso a casa nostra con la figlia Luciana, una cugina
di qualche anno più grande di noi, talmente timida che parlavamo noi per
lei.
Papà un giorno decise di rivolgersi ad un istituto di ricerche araldiche
per ricostruire un albero genealogico della famiglia Chiaselotti.
Non so quanto gli fosse costato, ma quando gli arrivò quel fascicolo con
coperta blu in carta pecora e un vistoso stemma araldico, non vide l'ora di sfogliarlo.
Scoprì così che tra gli antenati ci furono conti, marchesi e prelati,
motivo per cui mamma, per molti anni, ogni qualvolta si presentava una spesa imprevista
gli proponeva di vendere la contea di Ferrovecchio...
Il sesso
Papà mi parlava sempre di un suo fratello che era molto bravo nel disegno
e nella scultura.
Un giorno scoprii sotto le coperte riposte nell'armadio un suo disegno: raffigurava
un bambino che, in strada, esibiva il suo piccolo e prezioso arnese al passaggio
di alcune signore, che senza fermarsi, si giravano stupite e indignate.
Rimasi colpito della qualità del disegno, più che dal soggetto: era
fatto molto bene, un po' come i disegni di Beltrame.
Quando mi scoprirono ad ammirarlo, pensarono subito all'aspetto più ovvio
e se la presero con me che non avevo assolutamente nulla da rimproverarmi.
Forse per giustificarsi mio padre mi disse che si trattava di un disegno eseguito
da un suo fratello emigrato, credo negli Stati Uniti: la firma Chiaselotti lo attestava.
Per un po' pensai che papà sapesse disegnare e chissà per quale motivo
mi avesse tenuto nascosta questa sua capacità, ma dovetti ricredermi quando
gli chiesi di disegnarmi un indiano. Disegnò una specie di quadrato con un
triangolo attaccato su un lato: pensai che se non sapeva disegnare un naso, figuriamoci
un uccello...
Ritornando al sesso, allora apprendevamo tutto dai compagni più grandi, in
strada, un po' alla volta.
L'episodio della galleria di piazzetta Belvedere con i due anziani amanti fu una
prima esperienza di cui capimmo molto più tardi la portata...
In genere chi cercava di spiegare i misteri del sesso millantava conoscenze dirette
e lo diceva con un'aria distaccata per dare maggiore credibilità alle sue
affermazioni.
È strano che nessuno di loro ci avesse mai parlato dei cicli mestruali e
neppure della esatta ubicazione del sesso femminile: ricordo che c'erano dispute
tra gli accademici che calcolavano la posizione della mona sempre e solo in rapporto
all'ombelico.
Ascoltavamo increduli le spiegazioni sui misteri del sesso. Qualcuno, molto più
esperto degli altri, asseriva che le ragazze quando volevano essere abbracciate
tenevano una spalla più bassa dell'altra oppure mettevano le dita in un certo
modo; non ricordo tutti gli atteggiamenti diversi che, a detta dei nostri occasionali
maestri, le donne erano in grado di assumere a seconda del messaggio che volevano
comunicare.
C'era nella compagnia che frequentavo una ragazza più grande di noi, molto
bella, che qualche anno più tardi vidi sulla copertina di una rivista nazionale
in mezzo ai primi soldati italiani entrati a Trieste nel 1952.
Stavo attentissimo a tutti i suoi movimenti quando parlava con me; se avesse solo
abbassato una spalla o se avesse incrociato le dita, giuro che le sarei saltato
addosso.
In quanto alla nascita dei bambini avevamo poche idee e molto confuse: secondo alcuni
di noi l'uscita avveniva senz'altro dal culo.
Andai a cercare sull'enciclopedia della donna moderna, ma un disegno chiaro come
quello che aveva disegnato mio zio non c'era.
Sarei rimasto a lungo ignorante se un giorno il figlio di pochi anni di una nostra
vicina, Mirella, una maestra che ci aveva visti nascere, non mi avesse spiegato
tutto con le parole giuste.
Pane e latte
Mario Zafred era il panettiere sotto casa.
Di origine slovena, era stato attivo negli ultimi giorni antecedenti la fine della
guerra partecipando alla cacciata dei tedeschi da Trieste.
Il suo negozio era all'angolo dell'edificio in cui si trovava la nostra rivendita
e ricordo ancora il buon profumo di pane caldo che saliva fino al nostro piano.
Finita la guerra, i panini che andavamo a comprare, quelli fatti con la farina bianca
americana, non arrivavano tutti a destinazione perché nelle scale ne avevamo
già mangiato qualcuno - allora era come mangiare dolci - e eravamo rimandati
giù a comprarne degli altri.
Il pane e il latte erano la base del nutrimento.
Anche la lattaia era di origine slovena. Appena arrivava ci facevamo trovare con
una gran pentola in mano nella quale versava il latte estraendolo dal grosso bidone
con un misurino in alluminio una, due tre, quattro volte: due litri che, appena
chiusa la porta, provvedevamo già a ridurre di un buon terzo.
In quel periodo cominciavano a manifestarsi tentativi di riportare indietro la storia.
Per molti la fine del fascismo corrispondeva ad un'intollerabile rivincita delle
popolazioni di origine slovena su quelle di origine italiana.
Non era proprio così perché le prime restavano sempre una minoranza,
per giunta guardate con sospetto e il più delle volte costrette a tollerare
atti di violenza da parte di nostalgici del passato regime.
Così accadde a Mario Zafred. Ne fui testimone una mattina di primavera del
1950 o '51, quando affacciato dalla finestra vidi scendere dal tram alcuni giovani,
almeno cinque, che senza alcun motivo iniziarono a scagliare pietre prima contro
l'insegna della panetteria, una lunga tabella con la scritta in italiano e in sloveno,
e poi contro le vetrine.
Ricordo che rimasi sorpreso di questa improvvisa e immotivata incursione e chiamai
non so chi, di casa, perché si affacciasse a vedere ciò che stava
accadendo.
A giudicare dall'aspetto e dall'agilità con cui balzarono dal tram, afferrando
e lanciando in pochi secondi decine di sassi, potrei dire che fossero di età
compresa tra i diciotto e i venti anni.
Rimasi sbalordito quando, in un attimo di tregua, vidi affacciarsi sulla soglia
il panettiere con il grembiule e la bustina bianca di lavoro e gettare addosso ai
giovani più vicini del liquido da una bottiglia che teneva con entrambe le
mani.
Prima di rendermi conto di cosa stesse realmente accadendo, pensai per una frazione
di secondo che stesse scioccamente tentando di allontanare quegli scalmanati bagnandoli
con dell'acqua.
Vidi subito dopo quei ragazzi fuggire in direzioni opposte e sentii le grida strazianti
di uno di loro che, correndo senza una direzione precisa, con le mani sul volto,
sembrava quasi inseguito dal suo stesso soprabito e dalla cintura che fumavano.
Seppi più tardi che non si trattava di acqua ma di acido muriatico.
Stetti ancora alla finestra, mentre mia madre mi supplicava di rientrare cercando
di staccarmi le braccia dai ferri di protezione, e diceva non so a chi, forse a
mia zia Maria, che il panettiere aveva accecato un ragazzo.
Riuscii a vedere l'arrivo di una camionetta della polizia militare alleata e un
soldato colpire alla testa con un manganello Mario Zafred, per poi spingerlo con
forza sul mezzo che ripartì a tutta velocità.
Fu una scena terribile e di una violenza che non avevo mai visto.
Mamma, ogni volta che ne parlava, rabbrividiva e si chiedeva se quel giovane fosse
rimasto cieco.
Io, ricordando ancora oggi quella furia devastatrice e quell'epilogo così
tragico, non riesco a spiegarmi perché una lingua potesse suscitare tale
e tanto odio.
A distanza di anni mi chiedo se i figli di Mario Zafred e di quel giovane sanno
che cosa accadde veramente ai loro genitori in una bella mattina di primavera.
Il maestro Vidali
Quella finestra rappresentò a lungo un palco privilegiato sul piccolo mondo
che scorreva quotidianamente sotto i nostri occhi.
Oggi quelle nostre curiosità potrebbero essere assimilate ad una forma precoce
di voyeurismo; allora non ci ponevamo alcun problema e tutto ciò che avveniva,
di bello o di brutto, era oggetto di commenti, di scherzi, di scambio di impressioni.
Nel palazzo di fronte abitava Marilù, una giovane maestra che spesso chiamavamo
chiedendole di dirci qualcosa, qualunque cosa, e quando era troppo occupata seguivamo
tutti i suoi movimenti all'interno della casa, in attesa che si riaffacciasse.
Nulla di morboso e neppure di malizioso: Marilù rappresentava per noi quella
sorella che non avevamo avuto.
Al piano terra abitava un pianista. Un signore basso e molto curato nell'aspetto.
Lo conoscevamo solo di vista, non era neppure cliente della rivendita perché
non fumava.
Usciva di tanto in tanto con un grosso cane al guinzaglio.
La maggior parte del tempo la passava al pianoforte o appoggiato al davanzale della
finestra che si apriva a poco più di un metro e mezzo dal livello stradale,
sicché affacciandosi era quasi alla stessa altezza dei passanti.
Scoprimmo che l'estate, ma anche nelle giornate più calde di primavera, circolava
nudo per la casa, completamente nudo, e spesso, con le braccia appoggiate su un
cuscino posto sul davanzale scambiava qualche parola con i passanti che conosceva.
Di tanto in tanto, con molta naturalezza, nel corso del colloquio faceva scivolare
la mano sulle parti nude del corpo dandosi una grattatina qua e là. Soprattutto
sul fondo schiena.
Ovviamente l'occasionale passante non sapeva, né poteva immaginare di parlare
con un interlocutore privo del benché minimo indumento e dall'alto potevamo
cogliere la comicità di un rapporto involontariamente equivoco che si creava,
nello stesso istante, tra chi poteva tranquillamente grattarsi ciò che l'altro
non si sarebbe mai sognato di sfiorare, neppure se avesse avuto un attacco di emorroidi.
Fu così che cominciammo a scherzare su ciò che sarebbe accaduto se,
dal nostro osservatorio privilegiato, avessimo avvisato gli ignari passanti che
quel distinto affabulatore era completamente nudo.
Prima ridemmo all'idea, poi piano, piano essa prese corpo al punto che decidemmo
di gridare all'unisono un "el xe nudo! " e ritirarci subito all'interno
per osservare da dietro i vetri le reazioni alla nostra sortita.
Flavio era imprevedibile nei suoi piccoli dispetti e rasentava spesso una forma
di sadismo che lo spingeva a compiere atti di cui in seguito si sarebbe pentito
per la reazione delle vittime.
Conoscendo questa sua indole, pensai che quella proposta potesse nascondere un tranello
e così al termine della conta alla rovescia che avrebbe fatto scattare il
nostro grido sulla condizione adamitica del pianista, anticipai il disegno che pensavo
avrebbe messo in atto mio fratello.
Mi ritirai prima di lui all'interno, bloccandolo con entrambe le braccia sul davanzale.
Si sollevarono di scatto le due teste, quella del pianista che allontanatosi dalla
finestra apparve tutto intero nella sua oscena bassezza e quella della signora che
con la spesa al braccio si era fermata a parlare già da alcuni minuti.
Videro quel ragazzo biondo e gentile, quel bravo putel del signor Paride e della
signora Gilda, che, volgendo lo sguardo ora in una, ora in altra direzione,
con molta naturalezza, cercava di apparire ignaro di quanto fosse accaduto.
L'altro, quel più vispo, non c'era: era alle sue spalle attento a
non farsi colpire dai calci sferrati dal primo che cercava inutilmente di sottrarsi
al riconoscimento.
Alcuni anni dopo rivedendo la scena del film, La finestra sul cortile, in cui il
protagonista cerca di ritrarsi alla vista dell'assassino, arretrando nel buio della
stanza dalla quale aveva assistito ad un delitto, pensai a quella modesta e sconosciuta
anticipazione del capolavoro di Hitchcock.
Nel nostro caso non vi fu alcun delitto, ma gli occhi del maestro di pianoforte,
signor Vidali, in quell'istante facevano prevedere il peggio.
Flavio per un po' evitò di uscire nell'ora in cui quel distinto signore portava
a passeggio il cane, mentre io ogni volta che passavo sotto le sue finestre, vedendolo
affacciato, lo ossequiavo rispettosamente.
La Vespa
Fu l'anno in cui ancora non avevo avviato quel processo di riforma scolastica di
cui, con l'esclusione del mio compagno Bearzi, nessuno capì la portata.
Avevo frequentato e superato il terzo anno del liceo scientifico, con una votazione
non significativa, ma di tutto rispetto.
Mio fratello Flavio, neppure lontanamente sfiorato dall'idea che a scuola si potesse
anche andare male, fu promosso con voti che fecero crepare d'invidia molti, ad eccezione
di me che non provai mai simili, ignobili sentimenti.
Per la prima volta, come viaggio premio, fummo spediti entrambi in Calabria, anche
se tra i nostri piccoli obblighi quotidiani ci fu spiegato che avremmo dovuto aiutare
lo zio Dario nella conduzione del bar, visto che lo zio Michele era stato colpito
già da un anno da un ictus con paralisi agli arti inferiore e superiore destri.
Lo zio Dario aveva investito dei risparmi nell'ammodernamento del locale e delle
attrezzature tra le quali una nuova macchina automatica per il caffè e il
bancone frigorifero per i gelati.
Un giorno dissero, senza troppa convinzione, che forse uno scooter avrebbe facilitato
l'acquisto dei prodotti per il bar, che di solito avvenivano presso dei grossisti
di Cosenza con ritardi nell'invio della merce o con aggravi di spese per restituzione
di prodotti, che non risultavano quelli pattuiti.
Non so dire quali e quante promesse sia di sostegno alla piccola impresa familiare,
che di eterna dedizione filiale facemmo in quei giorni.
Suggerimmo, incautamente, l'idea che anche lo zio Michele avrebbe potuto trarre
beneficio da brevi percorsi per godere più appieno della salubrità
dei luoghi.
Si convinsero e, motivando all'esterno tale decisione come un premio per la doppia
promozione di cui mi assunsi il merito principale, visto che quella di Flavio era
considerata cosa normale, decisero, su nostra precisa indicazione, di comprarci
una Vespa Piaggio 125, che allora si poteva guidare già a sedici anni.
Con il volto che non tradiva la benché minima emozione, esternando a parole,
con serietà sacerdotale e con ripetuti giuramenti sugli indici incrociati,
la ferma intenzione di non usare il bene che si apprestavano a comperarci per futili
fini personali, bensì per uno scopo più alto, consapevoli dei motivi
economici e familiari che erano alla base di tale acquisto, ascoltammo increduli
la proposta di zio Dario di dotare il mezzo di un sidecar per potervi portare lui
o lo zio Michele e, perché no, magari anche la zia.
Mentre il rappresentante della Piaggio, pur di vendere, annuiva senza un minimo
senso di pudore, muovendo la testa in avanti in segno di approvazione della strabiliante
proposta e dondolando lievemente il corpo tra la punta dei piedi e i talloni, io
già sentivo nelle orecchie i commenti salaci dei miei coetanei nel portare
a passeggio gli zii vestiti come il Barone rosso.
Flavio precedendomi nell'incauta obiezione che avrei voluto muovere e che avevo
appena espresso con un minchia, che poteva essere sia di stupore che di approvazione,
disse che la proposta gli sembrava ottima.
Il secondo minchia fu meno apprezzato da tutti e in particolare da mia zia che si
ricordò come sempre dello zio Marcello a cui diceva che somigliavo nei momenti
peggiori.
Quando si trattò di discutere sul prezzo, quella strana appendice risultò
essere troppo cara.
Si fecero il pari e il dispari, come soleva dirsi in Calabria, e alla fine decisero
di farne a meno.
Il contratto fu stipulato la sera stessa, nel bar, con ventiquattro rate mensili
di seimila lire ciascuna.
Il rappresentante della Piaggio, signor Giuseppe Viggiano, ci avvisò dopo
venti giorni che lo scooter poteva essere ritirato a Cosenza.
Zio Dario chiamò un esperto autista e assieme si recarono presso la concessionaria
per ritirare il veicolo.
Tornarono verso le due del pomeriggio dopo un percorso tra curve, salite e discese
di circa 50 Km.
Fu l'ultimo viaggio di mio zio sulla Vespa.
La politica
A casa difficilmente si parlava di politica, anzi non se ne parlava quasi mai, per
evitare di venire alle mani. Mentre tutti i nostri compagni avevano un genitore
democristiano o comunista noi avevamo un padre repubblicano.
Era l'unico tranviere iscritto al glorioso partito mazziniano: ogni qualvolta c'era
il congresso nazionale sperava di essere citato come esempio, ma nessuno se ne ricordò
mai.
Il partito a Trieste aveva anche una sezione polisportiva alla quale papà
era iscritto come ciclista. Non capivo se si fosse iscritto al partito repubblicano
per fare il ciclista o se partecipasse ai raduni sportivi per mostrare l'edera sulla
maglietta. Non volle mai spiegare i motivi di una scelta così complessa.
Zio Dario, invece, era nato democristiano.
Fu anche segretario della sezione di S. Marco Argentano per un certo periodo.
Era devoto di De Gasperi, di cui teneva un piccolo busto in gesso sul comodino accanto
ad una immaginetta del Sacro Cuore.
Nel cassetto c'era un elenco di tutti quelli che non potevano partire per gli Stati
Uniti perché erano comunisti.
Ogni giorno cercava di convincerne qualcuno a cambiare partito e, quando vi riusciva,
per conquistare un voto scriveva all'ambasciata americana che il soggetto di cui
all'informativa riservata era comunista, in caso contrario, per allontanare potenziali
avversari, comunicava che si trattava di persona di comprovata fede democristiana.
E così da San Marco partirono per gli Stati Uniti i più intransigenti
sostenitori di Stalin e tutti i democristiani rimasero nel proprio paese.
Alcuni anni più tardi pensò di applicare i concetti del cattolicesimo
economico di De Cardona anche a S. Marco, dove aprì La Provvida, un punto
di vendita di prodotti alimentari provenienti dalle cooperative delle Ferrovie,
con una provvigione a percentuale.
La pasta spesso avariata o di peso inferiore al dovuto e la crescente sfiducia dei
pochi clienti gli fecero capire che alcuni ideali politici mal si conciliavano con
i suoi interessi.
Dalla sottile parete che divideva il negozio dalla parrocchia, ogni sera, a chiusura
dell'esercizio, giungevano alle orecchie del prete le imprecazioni di mio zio verso
tutta la gerarchia democristiana, fino alle più alte sfere ...
Il parroco riferì la cosa al Vescovo che confondendo Provvida e Provvidenza
gli disse che doveva avere pazienza.
Lo zio ritornato a casa si chiuse nella stanza e inserì nelle imprecazioni
anche le gerarchie ecclesiastiche.
Chiuse l'attività prima che la Provvidenza si potesse vendicare.
In seguito, avendo avuto assicurazione da un responsabile nazionale del partito
che la domanda di un aumento della pensione per meriti di lavoro - aveva fermato,
a rischio della vita, un treno in corsa - sarebbe stata accolta, si vide recapitare
con grande solennità un diploma di cavaliere della Repubblica.
Dopo la sua morte scoprimmo i due pezzi della pergamena nel cassetto di un secrétaire
assieme al bustino in gesso di Alcide De Gasperi e alla medaglia di fedeltà
al partito.
Zio Michele, che di politica non parlava mai, era considerato da zio Dario un massone.
Forse lo era davvero perché mi diceva sempre di salutare alcuni personaggi
del luogo: un avvocato, un direttore di banca, un anziano maestro elementare.
Zio Dario era pronto a giurare che era stato visto entrare nella casa di un massone
ed essere sottoposto al rituale di affiliazione con le pratiche esoteriche proprie
di quella organizzazione.
Zio Michele non confermò, né smentì mai queste dicerie.
Alla sua morte gli trovammo addosso la tessera di Giustizia e Libertà e capimmo
che le illazioni di zio Dario non erano disinteressate.
Mamma e zia non erano di nessun partito.
Zia votò sempre per la democrazia cristiana perché convinta che chi
votava comunista commettesse peccato.
Quando molti anni più tardi le chiesi di votare per me che ero candidato
nelle liste del partito comunista pensò di chiederlo al confessore.
La portai in gita in Umbria e in Toscana, accompagnandola alle messe mattutine alle
quali non voleva mai mancare.
La andavo a riprendere al vespro.
Tutti i confessori le dissero un gran bene dei comunisti, tranne uno che era meridionale.
Mamma, di atteggiamento più laico anche se credente e praticante, amava sempre
leggere i giornali e, quantunque non manifestasse particolari interessi politici,
si era fatta un'idea di come andasse il mondo: lo capimmo quando ci mandò
al cinema Dom, quello del circolo comunista sloveno, dove si pagava di meno.
Spesso si lasciava andare a commenti sulla rettitudine di questo o quel politico
al governo, con grande disapprovazione di zio Dario che i giornali non li leggeva
mai.
Quando seppe che ero diventato comunista mi fece capire che forse era meglio socialista,
come Flavio, ma ancora i giornali non avevano pubblicato il resoconto dell'interrogatorio
di Mario Chiesa.
Il nipote preferito.
Flavio fu sempre considerato un bravo ragazzo, con la testa a posto, al contrario
di me, che per il carattere insofferente e ribelle, procuravo dai due ai quattro
dispiaceri al giorno.
Zia Franca, ogni qualvolta facevo qualcosa che disapprovava, piegava lievemente
la testa di lato, volgeva gli occhi al cielo, quindi congiungeva di scatto entrambe
le mani, con le dita intrecciate, e rovesciando i palmi all'infuori, si mordeva
il labbro inferiore.
La performance si concludeva con un Jes che era una forma sincopata di invocazione
del Signore.
Anche Diego era considerato potenzialmente pericoloso e soggetto al maligno.
Gli zii avrebbero trascorso l'intera esistenza con questo profondo convincimento
se un giorno ...
Il ritorno di Morabito.
La zia aveva l'abitudine di conservare qualsiasi foglio di carta, da quello con
cui veniva avvolto il pane fino alle lettere.
Cassetti, borse, scatole erano piene di biglietti, partecipazioni, cartoline, foglietti
su cui erano appuntati litri di olio consumati in un mese, date di morte di parenti,
indirizzi, oboli di misericordia e così via.
In questo copioso archivio c'erano anche alcune buste contenenti le varie fotografie
del servizio militare che avevo svolto a Palermo.
Un giorno lo zio Dario, cercando di mettere ordine in questo mare di carta, trovò
assieme ad una mia foto in divisa una lettera con la quale mio fratello Flavio mi
informava che lo zio sarebbe stato oltremodo felice di sapere che tra i miei superiori
compariva un Morabito.
Il tono della lettera non lasciava dubbi sulla irrisione di un mito, cioè
quello che per anni era diventato il deus ex machina di ogni conversazione.
Ogni qualvolta sentiva questo cognome si chiedeva se per caso non si trattasse di
un parente del suo omonimo collega ferroviere, trovando sempre un qualche legame
storico o geografico che poteva avvalorare questa ipotesi.
Nessuno di noi faceva più caso a quella che consideravamo una delle tante
fissazioni che ci accompagnano nell'arco della vita, tranne Flavio, che dimentico
o troppo educato, restava seduto ad ascoltarlo.
Zio Dario lesse più volte quella lettera, incredulo che anche il nipote prediletto
avesse potuto rivelare l'indole perversa del fratello e dello zio Marcello.
Alcuni anni più tardi, mentre la zia in vena di ricordi ne elogiava le doti
di cuore e di mente, lo zio concluse che Flavio era n'atru merdu, con chiara
allusione anche alla mia persona.
Il meccano
Papà era sempre affascinato da tutto ciò che metteva in moto il cervello,
mamma da tutto ciò che lo faceva riposare: era convinta che il cervello,
a furia di usarlo, si esaurisse, un po' come le pile.
Papà nel tempo libero aveva due grandi passioni: scaccolarsi di brutto e
creare enormi costruzioni con il meccano.
Condivideva entrambe le passioni con Flavio e la prima, nei momenti di maggior concentrazione,
era complementare alla soluzione dei problemi.
Io che non amavo le costruzioni meccaniche, mi scaccolavo soltanto, motivo per cui
ero considerato uno schifoso.
Per non essere più insultato cercai anch'io di accostarmi al meccano e fare
qualcosa che potesse stupire mio padre e mio fratello.
Per chi non lo sapesse il meccano consisteva in sottili sbarrette di metallo con
tanti fori posti a distanza uguale, nei quali si inseriva un piccolo bullone, l'altra
sbarretta e il dado di fissaggio.
Così facendo, si realizzavano strutture più o meno complesse, alle
quali si potevano aggiungere pulegge, cinghie, manovelle per creare movimenti.
L'abilità maggiore consisteva nell'avvitare i dadi nei punti più inaccessibili,
aiutandosi con piccoli sostegni occasionali, ma soprattutto introducendo abilmente
le dita nei piccoli meandri metallici.
Quando i tentativi diventavano inutili e il tempo eccessivo, forzavo la situazione
e con essa anche le barrette oppure assestavo dei colpi più o meno forti
sull'insieme dei pezzi.
Abitualmente accompagnavo l'azione con vari porca mastela e altre imprecazioni
che facevano accorrere, allarmata, mia madre dalla cucina.
Il suo buon cuore non riusciva a darmi tutto il calore di cui avrei avuto bisogno
quando il babbo e mio fratello trovavano la loro enorme gru semovente con braccio
osculante-retrattile ridotta di un terzo, ritorta e fissata con uno spago; però
i suoi appelli accorati, perché mi facessero il minor male possibile, riuscivano
a prepararmi al peggio.
Il fungo cinese
In uno dei numerosi viaggi a San Marco, appena entrato nella casa degli zii, mi
apparve uno zio Michele completamente diverso da come l'avevo lasciato: di fronte
a me era seduto un vecchio che lacrimava senza piangere e cercava di parlarmi senza
pronunciare le parole.
Mi spiegarono che aveva avuto una paralisi.
Col tempo recuperò alcune funzioni, riuscendo a muoversi appoggiato ad un
bastone e a farsi capire con poche frasi e qualche gesto.
In quella piccola comunità il ricordo di una persona così attiva e
ancora giovane, aveva meno di cinquantaquattro anni, destava la pietà di
conoscenti e amici.
Tra questi una signora che, vedendolo immobile, muto e con il capo reclinato sul
petto, espresse a noi tutto il dolore per le tristi condizioni in cui si trovava
il povero don Michele.
Un inequivocabile puttana fricata, con cui mio zio ritenne di gratificare
l'ospite, fece cambiare idea alla signora che, girandosi sui tacchi e senza altri
commenti, disse che don Michele non era cambiato affatto.
Quando siamo colpiti da una malattia, non facciamo in tempo a parlarne che subito
siamo preceduti dal nostro interlocutore che della stessa malattia è stato
vittima; se non lui un suo parente.
Tutti diventano prodighi di consigli su questo o quel rimedio; alcuni suggeriscono
di non bere molta acqua, altri all'opposto di berne molta, calda e con un po' di
sale.
Ogni volta che arrivava il medico per misurargli la pressione, gli zii chiedevano
un suo parere sui consigli ricevuti. Il dottore a volte non rispondeva affatto,
altre volte, chiudendo la borsa e avviandosi alla porta, suggeriva con sarcasmo
di rivolgersi al medico santo, un bizzarro personaggio a metà tra il mago
e il barbiere che riceveva solo nello studio.
Un giorno fu portata a casa una cassetta che, con mille precauzioni, fu posata sul
comò della stanza da letto dove dormiva lo zio invalido.
Al suo interno c'era un vaso di vetro del bar, un tempo usato come contenitore di
confetti, in cui, immersa in un liquido giallastro, giaceva una misteriosa forma
circolare scura, dai bordi leggermente più chiari e dall'aspetto vischioso.
Appena mi avvicinai per scoprire di che cosa si trattasse, fui allontanato con la
raccomandazione di non toccarlo e di non versare mai acqua nel contenitore.
Più tardi dal racconto di mio zio Dario sulle mille difficoltà per
procurarsi quello strano essere acquatico e sulle trattative per ottenere un piccolo
sconto, sentii parlare di fungo cinese, la cui acqua miracolosa doveva essere bevuta
a digiuno ogni mattina.
Zio Michele, quando gli accostarono la tazzina alle labbra, sollevò la mano
sinistra con violenza, facendo cadere il liquido sul pavimento.
La zia si convinse ancora di più delle proprietà terapeutiche del
fungo quando cercò di togliere inutilmente la macchia che vi si era formata.
Il fungo rimase a lungo sul comò e visto che non c'era verso di farlo bere
a mio zio, cercarono di restituirlo per recuperare almeno una parte della somma
spesa, ma l'originario proprietario li convinse che bastava la presenza del fungo
nella stanza per svolgere poteri taumaturgici.
Lo vidi per l'ultima volta scivolare lungo le pareti del water e scomparire dalla
vista tra i flutti dello sciacquone il giorno successivo al funerale dello zio Michele.
Il mulo nagana.
Avevo un'età indefinibile: contando gli anni dalla nascita il numero corrispondeva
a quindici, gli altri me ne attribuivano qualcuno in più e io ero convinto
di averne non meno di venticinque, soprattutto all'uscita dal cinema, dopo i film
di Humprey Bogart.
Indossavo uno di quegli impermeabili che, per la loro sottile pellicola simile a
quella dei preservativi, a Trieste erano chiamati Goldoni non essendoci in città
una piazza intitolata al dottor Condom, il vero inventore della profilassi venerea.
La mano rigida nascosta nella tasca, con il pollice sollevato, l'indice e il medio
uniti, e le altre due dita piegate, il bavero sollevato sul collo, camminavo proteggendomi
dalla pioggia sotto i cornicioni delle case, scrutando furtivo e accigliato il volto
dei passanti.
Ero un mulo nagana.
Nessuno lo sapeva, nemmeno i miei che non sospettarono mai di questa mia doppia
identità.
Per non accrescere il dolore di mio padre costretto a condividere con me le lamette
e il sapone da barba, al rientro a casa assumevo l'aspetto di un ragazzo normale.
Prima di entrare abbassavo il bavero, slacciavo la cintura dell'impermeabile ed
estraevo la mano dalla tasca soffiando sulle dita unite.
Mia madre, che una mattina di agosto mi aveva visto piangere mentre mi allacciavo
la fibbia dei sandali blu con tomaia chiara in pelle di bufalo antiscivolo acquistati
da Bata il giorno prima, capì il mio dramma e mi diede dei soldi per andarmi
a comprare le scarpe che volevo io.
Tornai con una calzatura invernale di camoscio con spessa suola in gomma. Il mulo
nagana non conosce stagioni.
Tutti i muli nagana avevano lo stesso problema: nessuno ne parlava e chi lo era
non lo avrebbe mai ammesso.
I più anziani liquidavano la questione con un banale i xe tutti mona, senza
conoscere realmente le sofferenze che ognuno di noi portava dentro.
Il vero mulo nagana si riconosceva allo specchio: non piegava mai la testa, ma scrutava
quel volto con l'aria di sfida, la fronte corrugata, chiedendo sprezzante al suo
muto interlocutore chi fosse e piegandosi ad umana pietà solo alla vista
di quel maledetto brufolo sulla fronte.
Alcuni anni più tardi, Alberto Sordi avrebbe dato voce e dignità ai
muli nagana rendendo esplicito il messaggio che ognuno di loro aveva nel cuore.
OKanawana missis.
Il primo amore.
Anche i più nagana hanno un cuore.
Lo scoprii un giorno di primavera, andando a scuola.
Frequentavo il secondo anno del liceo scientifico "Guglielmo Oberdan"
e, come spesso avveniva appena l'aria si intiepidiva, in gruppo percorrevamo il
lungo tratto di strada che ci portava a scuola.
La galleria Sandrelli, sotto la scala dei Giganti che porta a San Giusto, risuonava
degli allegri vocii dei giovani studenti. Imboccando la galleria da Piazza Goldoni
camminavamo sul marciapiedi di destra, mentre studenti di altre scuole scendevano
lungo il marciapiedi opposto.
Incrociandoci, a distanza ci lanciavamo saluti o insulti a secondo del rapporto
che si era instaurato nelle partite di basket o negli spettacoli studenteschi al
Rossetti. Quando si trattava di ragazze erano fischi di ammirazione e commenti salaci.
Mi apparve mentre imboccava la galleria: un caschetto di capelli neri e un cappottino
rosso.
Pur non avendola mai vista mi rivolse un saluto con la mano sollevando lievemente
il braccio dietro la testa della donna che le stava a fianco, forse sua madre.
Sorpreso e incredulo, risposi con lo stesso gesto.
I miei compagni si stupirono che non ne avessi mai parlato con loro, considerato
che la naturalezza e la cordialità del saluto facevano supporre una preesistente
amicizia o conoscenza.
La rividi una seconda volta, sempre nella galleria e sempre con la stessa accompagnatrice.
La salutai io per primo e lei ricambiò il saluto, questa volta senza nascondere
il gesto.
Riuscii a scorgere bene il viso, piccolo e gradevole e soprattutto il naso, lievemente
arcuato in alto.
Sorrideva e camminava con una andatura gioiosa a metà tra l'andare un po'
di fretta e quel saltellare sulle punte quasi stesse giocando al porton.
Non ne ero certo, ma la prima volta il suo modo di muoversi mi era parso diverso.
Pensare che il cuore avesse cominciato a sobbalzare mi sembrava indegno per un nagana,
ma quella vista mi provocava una sensazione nuova che non sapevo definire, ma il
cui ricordo è ancora vivo.
Anche oggi, a distanza di tanto tempo, potrei descrivere ciò che si prova:
lo stomaco sembra improvvisamente vuoto, c'è un momento di smarrimento a
cui segue un pulsare più rapido del battito cardiaco e, mentre si deglutisce
a vuoto, si avverte un lievissimo tremore e un fluire del sangue dal centro al basso
ventre, quasi ad accarezzare appena la zona pelvica per poi risalire con più
forza verso il collo e riscaldarti il viso.
Girandomi per seguirla con lo sguardo scorsi alle mie spalle Giuliano Steffè,
il compagno di classe con la giacca di tweed e i capelli biondi che gli ricadevano
sulla fronte, giusto in tempo per cogliere un gesto di saluto da poco concluso.
Mi chiese se la conoscevo pure io visto che era la seconda volta che la salutavo.
All'uscita da scuola mi soffermai a guardare le giacche di tweed davanti alle vetrine
di Beltrame, pensando a quel pure che aveva distrutto un amore sul nascere.
L'età dello sviluppo.
È l'età più difficile.
Di colpo ti rendi conto che qualcosa sta cambiando dentro di te. Io, essendo nato
maschio, potevo osservare tutte le fasi dello sviluppo dall'esterno.
Tutto procedeva bene, però più anni passavano e più mi rendevo
conto che avere tre appendici per fare un po' di pipì era una ricchezza sprecata.
Seppi dagli amici che in via Cavana, in locali chiamati casini, gli uomini investivano
le loro ricchezze, ma io non avevo l'età.
Non fui il solo: anche una famosa cantante ebbe la stessa amara sorpresa qualche
anno più tardi nel casinò di San Remo.
Un giorno sentii degli strani lamenti provenire dall'appartamento a fianco: dapprima
erano gridolini, seguiti in un crescendo ansimante da gemiti sempre più forti,
che si concludevano con una profonda espirazione e un'invocazione dell'Altissimo.
Curioso di conoscere chi fosse quella 'sventurata', uscivo sul pianerottolo e stavo
lì, appoggiato con noncuranza alla ringhiera delle scale, in attesa che si
aprisse la porta dell'appartamento a fianco del nostro.
Ne usciva una bella signora, bionda, che non aveva assolutamente l'aria di chi avesse
avuto la benché minima sofferenza nella vita.
Succedeva sempre così, ogni pomeriggio, mentre io, rammaricandomi per uno
sviluppo che tardava a venire, con un buonasera simile a quello di una recentissima
pubblicità, esternavo con voce suadente e prolungata la totale comprensione
per le pene della nostra occasionale vicina.
Una volta, contrariamente al solito, i gemiti continuarono a sentirsi anche ad ora
di cena e io, inutilmente, cercai di coprirli succhiando con gran rumore il brodo
dal cucchiaio.
Il giorno seguente mio padre andò a lamentarsi con il padrone di casa.
Il pomeriggio sentii spostare mobili da una stanza all'altra, mentre io riprendevo
il mio normale sviluppo.
La cucina americana.
La guerra era solo un triste ricordo.
La cucina, che era la parte della casa dove passavamo la maggior parte del tempo,
era arredata con pochi mobili che non riuscivano più a contenere l'abbondanza
di suppellettili e di cibo conseguente al maggior benessere.
Papà decise innanzitutto di comprare a mamma una lavatrice. Acquistò
il miglior prodotto sul mercato, una Hoover, che nostra madre guardò all'inizio
con sospetto.
Ogni volta che si faceva il bucato avevamo paura che potesse crollare l'intero quinto
piano, anche se allora la parola centrifuga era conosciuta solo come forza fisica.
Ci mettevamo tutti intorno al momento dell'asciugatura dei panni, che avveniva per
strizzatura entro due rulli di gomma azionati da una manovella a mano.
Tutti partecipavamo all'evento, ognuno cercando di dar prova di quanto fosse più
bravo dell'altro. Anche Diego, che era piccolo, aiutava a guidare l'uscita dei panni
dal rullo nella tinozza sul retro.
Dopo questo acquisto i nostri genitori decisero di rinnovare l'arredamento della
cucina.
Acquistarono una bella cucina bianca componibile, che si chiamava all'americana
per una clausola sul trattato di pace con l'Italia, in sostituzione di uno stipo
con due piccoli vetri scorrevoli in alto e di una credenza bassa, entrambi tenuti
su dalle varie mani di vernice bianca che vi erano state passate.
C'era l'aria delle grandi cerimonie.
Mamma aveva comperato mezzo litro di Marsala da dare in parte ai facchini che avrebbero
portato i mobili e il resto da bere per il brindisi d'occasione.
Tutti suggerirono come sistemare i pezzi della nuova cucina: ci fu un gran trambusto
e un susseguirsi di ordini e contrordini. Alla fine, dopo alcune ore, mamma invitò
tutti a sederci e si avviò verso il piccolo mobile ormai da sfasciare, in
cui aveva riposto la bottiglietta del Marsala.
Non c'era.
Guardò prima papà e poi me, conoscendo la passione del marito per
i calicetti e la mia propensione agli scherzi.
Flavio fu escluso perché troppo occupato nella fase di installazione.
Chiamò Diego, che allora aveva poco più di cinque anni, e che avevamo
lasciato ad ascoltare un disco di Cecchelin nel corridoio. Lo trovammo seduto a
terra con a fianco la bottiglia di Marsala mezza vuota, mentre dal vecchio grammofono
a manovella la voce gracchiante e impastata del popolare comico triestino ripeteva
"no go le ciave del porton per tornar a casa ".
Lo sollevammo di peso e lo portammo a letto.
I facchini uscendo salutarono mia madre con un "cossa la vol, xe robe che capita
".
I bagni pubblici .
A casa non avevamo la doccia e ogni volta che dovevamo lavarci era un problema serio.
D'estate andavamo a lavarci nel mare, al Cedas, uno stabilimento balneare suddiviso
in due sezioni, una riservata agli uomini e l'altra alle donne. I bambini fino a
otto anni potevano andare con le mamme.
Mamma ci teneva sotto la doccia fino a quando non avevamo le labbra viola e continuava
a ripeterci di lavarci, lavarci, lavarci.
A volte si accontentava dell'acqua di mare, tranne quando Flavio e io facevamo le
gare a chi riusciva ad afferrare dei pezzi di legno o di sughero che galleggiavano
sull'acqua.
Spesso si trattava di stronzi, nel qual caso dovevamo usare sapone e acqua fredda.
In inverno dovevamo arrangiarci con una piccola tinozza di metallo, un catino e
innumerevoli svuotamenti di pentole sulla testa insaponata.
Papà quando si lavava i piedi pareva in preda all'orgasmo.
Quando aprirono il diurno alla stazione ci fu una sfilata di cittadini. Non sapevamo
che ci avrebbero dato teli da bagno e sapone e così partimmo da via Udine
con una valigia con l'occorrente per quattro persone.
La signora Domenica vedendoci ci augurò buon viaggio, ma io mi lasciai scappare
una mezza verità, che la portinaia seppe interpretare per intero.
Entrammo nel diurno alle 8 e trenta del mattino, pagando cinquanta lire a testa,
e uscimmo alle otto e trenta di sera grazie alla presenza sul posto di un vigile
notturno, che avvisò la direzione della presenza di ignoti nello stabilimento
chiuso.
Data l'ora tarda, la signora Domenica non ci vide rientrare.
Uomini di mare.
Nostro padre amava il mare.
Nel tempo libero si recava a pescare sul molo o a Barcola, portando con sé
ami, esche, sugheri, galleggianti, ciascuno adatto a convincere questo o quel pesce
ad uscire dall'acqua.
Il più delle volte ci riusciva, soprattutto se alle spalle non aveva osservatori.
In presenza di qualcuno evitava di far abboccare i pesci per non ascoltare tutti
i commenti che ne sarebbero seguiti: " el xe un tantin picio ... no valeva la
pena ... ghe vol un altro tipo de amo ... la se magna anche questo? "
ecc. ecc.
Tornava a casa con quattro o cinque angusigoli e qualche guato mangiati
di gusto per dimostrare che le spese per attrezzature varie erano già state
abbondantemente ripagate.
Un pomeriggio mi portò a pescare vicino il circolo canottieri. Il mare particolarmente
calmo e limpido consentiva di vedere il fondo sul quale, dopo alcuni minuti, scorgemmo
alcune grosse sogliole ben mimetizzate.
Papà riuscì ad agganciarne una dopo vari tentativi andati a vuoto.
Si rese conto che con una fiocina le avrebbe prese tutte.
Il giorno seguente era già pronto un tridente avvitato ad un'asta in ottone:
papà vi aveva lavorato dalle quattro del mattino.
Tre ore dopo, con una leggera brezza di maestrale, uscimmo da casa, papà
avanti con la fiocina sulla spalla ed io dietro con la valigetta degli attrezzi
da pesca.
Attraversammo la piazza della Stazione e il corso Cavour. Arrivati all'altezza del
canale di Ponterosso fummo fermati da un tubo, un vigile urbano, che dopo
averci salutato portando due dita al casco, chiese a mio padre con un tono a metà
tra il bonario e l'ironico dove andassero " el signor Netuno e suo fio
" .
È difficile riferire oggi il rapido scambio di battute che nel giro di pochi
minuti si volse a nostro sfavore.
Papà rispose, un tono più alto di un'ottava e quasi meravigliato,
che andavamo a passere, come si chiamano a Trieste le sogliole, aggiungendo
un " perché no se pol? " che per prassi ormai consolidata
qualunque fermato di origine triestina utilizzava in simili circostanze.
Anche il " no che no se pol " era già dai tempi dell'Impero,
quello vero, la risposta di rito alla prima domanda.
Al " dove xe scrito ", detto più per abitudine che per consapevolezza
del diritto, seguiva puntuale il " ghe digo mi ", che, come tutti
i giuliani sanno, è l'articolo unico del codice del tubo a cui fa
seguito l'immancabile estrazione di un blocchetto e di una penna.
Come un soldato con il suo fucile in spalla dinanzi alla garitta, papà fece
dietro front e io lo seguii.
Fatti pochi passi fummo raggiunti da un invito a togliere il tridente dall'asta
e metterlo nella cassetta.
Obbedimmo. "El tubo, a Trieste, el xe sacro " diceva sempre mio
padre.
Trieste italiana.
Tutti noi a Trieste ci sentivamo italiani anche se facevamo parte della cosiddetta
zona A amministrata da un Governo militare alleato.
Vedere le parate militari era uno spettacolo affascinante, soprattutto quando sfilavano
gli scozzesi con le cornamuse. Per chi era un po' più grande cominciava ad
affacciarsi qualche idea politica.
Vicino la scuola media Diaz, che noi allora frequentavamo, c'era un albergo i cui
ospiti erano in maggior parte inglesi. Un giorno alcuni studenti delle scuole superiori
presero a sassate le vetrate.
Winterton mi divenne antipatico. Era il generale inglese a capo del comando alleato:
ne conoscevo il nome perché ogni volta che si commentava qualsiasi avvenimento
ognuno diceva che era colpa de Vinterton. Me ne convinsi anch'io che cercai di attribuirgli
anche la rottura di un termometro scivolatomi dalle mani.
Non so come, ma gli inglesi improvvisamente divennero cattivi e gli americani buoni:
forse era l'effetto di una estrema sintesi politica che circolava a casa in quei
giorni.
Papà diceva che gli ufficiali inglesi erano più cattivi degli americani
per quel frustino che portavano sempre sotto il braccio, ma credo che il motivo
reale fosse da ricercare nell'incidente che ebbe con una jeep del comando inglese.
A me piacevano per il berretto rosso, ma non ne feci parola con nessuno per non
allargare il conflitto.
Tutti aspettavamo di entrare a far parte dell'Italia e io più degli altri,
visto che nei viaggi al sud mi chiedevano sempre se ero slavo o italiano.
Spiegavo che Trieste era un territorio libero che non faceva parte né di
questa né di quella nazione, ma che sapevo parlare sia l'una che l'altra
lingua.
Mi guardavano meravigliati mentre tiravo fuori un repertorio che metteva assieme
un prepovedano letto sulle targhette dei divieti sui tram, un peck
scritto sulla tabella del panettiere sotto casa, un dom riferito alla casa
del lavoratore portuale sloveno dove andavamo a vederci i film e un dobro
che avevo sentito spesso.
Aggiungevo qualche altra monada assieme a un pezzo di una filastrocca triestina
alla rovescia che papà ci aveva fatto credere di lingua ungherese.
Quando mi chiedevano cosa avessi detto non mi ricordavo mai cosa avessi risposto
la volta precedente e così scoprirono che non conoscevo lo sloveno, anche
se quel ritornello ripetuto sempre uguale lasciava qualche dubbio sulla mia italianità.
Per giunta, quando il maestro mi invitava a spiegare ai miei compagni quella discussa
situazione geografica di cui ero l'esempio vivente, a causa della difficoltà
che avevo nel pronunziare la lettera erre, quel Tevvitovio Libevo di Tvieste
diventava fonte di ilarità generale.
Lo zio Michele, che apprezzava molto le stecche di sigarette FIB che portavo da
Trieste e molto meno il maestro, mi diceva che ogni volta che mi chiedeva se ero
italiano o slavo lo dovevo mandare a'ffa 'nculu.
Per non complicarmi la vita ulteriormente evitai di seguire il suo consiglio.
Tornato a Trieste potei assistere al passaggio della città all'Italia. Qualcuno
continuava a ripetere Trst je nas e altri dicevano che la prima nave italiana
che sarebbe attraccata al molo sarebbe stata una grossa fregata.
Io, con tutti i problemi che avevo al sud, non vedevo l'ora che Trieste entrasse
a far parte dell'Italia, il cui nome filava liscio come l'olio.
Eravamo tutti alla stazione, quando un giorno da un treno scese un marinaio italiano;
in molti lo abbracciarono e lui, confuso e sorridente, sembrava inconsapevole di
essere il primo soldato italiano a mettere piede sul suolo triestino.
Io restai deluso, pensando alle tante voci che annunciavano la sfilata delle truppe
italiane.
Il giorno dopo arrivarono e io, come tanti altri ragazzi, ero presente sventolando
una delle bandierine di carta di cui Trieste in quel giorno era piena.
Finalmente, se fossi tornato a San Marco, non mi avrebbero più rotto i coglioni
con la storia della zona B e della mia nazionalità.
La radio con l'occhio magico.
Dopo che Trieste divenne italiana, nel 1954 papà decise di comprare una radio
nuova per ascoltare i programmi nazionali e un giradischi, perché il vecchio
grammofono a manovella avrebbe potuto rovinare i nuovi dischi.
La radio, una Minerva, fu sistemata su un mobile bar con incorporato giradischi
e porta album.
L'occhio magico, un segnalatore della esatta sintonizzazione, faceva apparire e
scomparire tra due sottili lamine simili a palpebre umane un bulbo illuminato, nello
stesso istante in cui piccoli lapislazzuli di diverso colore si illuminavano al
variare della lunghezza delle onde radio, mentre dallo sportellino aperto del mobile
sottostante un fascio di luce creato dal riflesso di decine di piccoli specchi rettangolari
investiva tutta la famiglia.
Fu con dieci cambiali di qualche centinaia di lire e un anello di mamma impegnato
al Monte di Pietà che la nostra famiglia scoprì i valori profondi
della civiltà dei consumi.
La sera tutti ad ascoltare Il mistero del treno fantasma, un giallo a puntate
che, al momento di andare a letto, continuava i suoi effetti devastanti: bastava
sentire un rumore insolito per farci ritornare tutti nuovamente in cucina.
Di solito venivo mandato avanti io per aprire la porta della stanza e accendere
la luce, perché ero considerato a torto o a ragione il più coraggioso.
Tre metri scivolando sulle pattine per posare la mano sulla maniglia d'alluminio
della porta ad unico battente mentre alle mie spalle continuavano a chiamarmi per
nome per non farmi sentire solo.
Un cago tremendo, alla disperata ricerca dell'interruttore della luce, con
la paura che qualcuno mi avvinghiasse la mano.
Era il potere di suggestione della radio e dei rari rumori che a quei tempi si sentivano:
lo sferragliare dell'ultimo tram, lo scricchiolio del parquet, il respiro sommesso
e sibilante di mamma addormentata con la testa reclinata sul braccio.
Papà amava la musica e, pur non sapendo suonare né cantare, avrebbe
voluto che almeno uno di noi avesse imparato a suonare qualche strumento.
Ci comprò due ocarine e due armoniche a bocca che, dopo mezzora di entusiastiche
prove, conservammo nel cassetto in alto dove un tempo lo zio riponeva il cinturone
nero.
Ogni tanto le riprendevamo quando papà, rientrato dal servizio stracco, si
buttava su una poltrona per gustarsi Jezebel, una canzone che parlava di
terre e amori lontani, convinti di creare quella idilliaca atmosfera agro pastorale
di cui lo stanco genitore avvertiva un forte bisogno.
Dopo un paio di accompagnamenti trovammo il cassetto chiuso a chiave e papà
sbarrato dall'interno nel solito stanzino che, nonostante la diffusione di riviste
di arredamento, continuavamo a chiamare salotto.
Papà affinò sempre più i gusti, in un cosmopolitismo canoro
che spaziava da Scalinatella longa longa a Blowing wild.
Anche noi cominciammo a gustare quelle canzoni, assieme ai formaggini di cioccolata.
Papà, al rientro, riusciva sempre ad indovinare quale disco avessimo ascoltato
quel giorno.
Col passare degli anni avevamo una raccolta di dischi di ogni genere e, tranne papà
che citava i titoli inglesi in tedesco, imparammo anche a dire qualche frase in
spagnolo, francese, inglese.
Quando scendevo al Sud alcune cugine più grandi di me mi chiedevano di cantare
questa o quella canzone e, benché fossi parecchio stonato, con quelle parole
esotiche ero in grado di farle sognare.
Zia Franca, quando cantavo O Cangaceiro, mi pregava di non farmi quell'augurio
così brutto: tutte le altre canzoni le piacevano, anche quelle che non capiva,
ma quella du cancaru no, era troppo triste.
Mamma lascia la rivendita
Negli ultimi anni la rivendita era diventata sempre più fonte di guadagni:
oltre a tabacchi, sale, valori bollati e giornali si vendevano articoli da fumo,
cartoline e qualche piccolo oggetto da regalo.
L'affluenza di persone faceva sì che cinema, circhi, luna park chiedessero
di potervi esporre qualche manifesto pubblicitario. In cambio lasciavano alcuni
biglietti gratis.
Il cinema Astra, a Roiano, divenne per noi il nuovo locale di spettacoli, con l'unica
differenza rispetto al vecchio, caro cinema Belvedere, che non potevamo uscire a
consumare la colazione e rientrare per assistere ancora a due o tre visioni.
Ogni tanto arrivava un luna park con l'autoscontro e le giostre con le catenelle.
Anche in questo caso vari biglietti ci consentivano di svagarci per qualche ora
gratis.
Tornavamo a casa e restavamo immobili sul letto mentre la stanza continuava a girare
vorticosamente intorno a noi.
Fu in questo periodo di prosperità che un giorno mamma rientrò dicendoci
che le entrate della rivendita sarebbero finite perché la titolare, la signorina
Stefani, aveva deciso di assumere direttamente la gestione del tabacchino.
A turno riprendemmo con maggiore frequenza i treni diretti al sud.
Il linguaggio scurrile.
A Trieste, al di fuori di un porca mastela, in casa nostra non erano ammesse
altre forme di imprecazione.
Per chi non lo sapesse mastela è l'equivalente di tinozza, e quindi il massimo
della volgarità, quando lo zio Dario era assente, consisteva in questo surreale
connubio tra la femmina del maiale e un contenitore per l'acqua.
Papà non essendo credente per coerenza con le sue idee non bestemmiava; mamma,
che forse poteva averne buone ragioni, essendo donna e meridionale, non ne aveva
diritto.
L'unico bestemmiatore era zio Dario che fu causa dell'artrosi cervicale di mia zia,
costretta ogni volta a sollevare il capo verso il cielo ad implorarne pietà.
Mio fratello ed io con allusione alle sue simpatie politiche lo chiamavamo, con
quel modo tutto triestino di elidere le parole, il demo. Oggi, ripensando
alla sua ridotta potenzialità cristiana, verrebbe da ironizzare sul vocabolo
che ricorda quei programmi non completi di tutte le funzioni...
A Trieste un mona non si nega a nessuno, forse nemmeno una mona, ma
non è questo il punto centrale del ragionamento, bensì la corrispondenza
di espressioni alle quali dovevamo ricorrere nei nostri frequenti spostamenti dal
nord al sud e viceversa.
Mona e fissa avevano, ed hanno, la stessa, identica funzione e il
ricorso a questo organo femminile per appellare una persona equivaleva a dargli
dello sciocco. Anche la variante della pars pro toto era simile alle due diverse
latitudini: mus de mona era la versione veneta del facc'i fissa calabro.
Le cose cambiavano enormemente quando si trattava di augurare a qualcuno un viaggio
in cui molti anni dopo Piero Angela si spingerà da solo ma in forma virtuale.
A Trieste l'augurio era di un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio attraverso
l'utero materno, a San Marco era invece un fervido augurio rivolto solo alla madre
dell'interessato.
Non mi lascerò andare alle espressioni scurrili a cui fummo ben presto formati,
quanto piuttosto voglio fare riflettere il lettore sul retroterra socio-linguistico
che ci costringeva a mutare rapidamente le forme della contrapposizione verbale
nel giro di ventiquattro ore. Tanto durava infatti il viaggio da Trieste a San Marco
e viceversa.
Forse l'origine magno greca è alla base di espressioni che coinvolgono a posteriori
molti membri della famiglia del destinatario dell'offesa, mentre non escluderei
il mito di Persefone nel coinvolgimento dei defunti.
Di tali raffinati sentimenti augurali, indubbiamente indicatori di una cultura millenaria,
il nord non era a conoscenza, per cui una volta rientrati a Trieste dovevamo ricondurre
il linguaggio nell'alveo più ristretto, linguisticamente parlando, della
mona.
Questo continuo sforzo di adeguamento non sempre mi consentiva di cogliere quei
risvolti idiomatici che altri avevano nella loro consolidata formazione autoctona
e che mi spinse, un giorno, a contestare al professore Stibelli l'uso improprio
del singolare di una preposizione articolata e di un accento tonico, quando ci parlò
per la prima volta della monade.
Incomprensioni linguistiche e la propensione a non accettare contaminazioni idiomatiche
lo costrinsero, certo in buona fede, ad allontanarmi dall'aula.
A San Marco simili equivoci non sarebbero mai accaduti per la maggiore ricchezza
espressiva dell'eredità greco-bruzia-romano-bizantina-arabo-normanna.
Anche dal punto di vista sociale ci sono alcune riflessioni a cui il lettore attento
non può sottrarsi e che sono esplicitate da questo episodio illuminante.
Portai a la prima volta a San Marco, appena cinquenne, la canzonetta triestina della
Famiglia dei gobon, che non sollevava il benché minimo sorriso negli
ascoltatori finché non pronunciavo l'attributo vacca, nella dizione giuliana
più smagrita di vaca, con riferimento ad una componente della famiglia,
nella fattispecie la sorella.
Mi chiedevano allora di ripeterla per esplodere in risate fragorose ogni qualvolta
giungevo al punto chiave di pasifiana analogia.
L'eccesso, fosse esso blasfemo o no, era il naturale divenire delle vicende quotidiane,
nelle quali venivano coinvolti tutti gli esseri viventi, presenti, passati ed eterni
e verso questi ultimi usando quel rispetto che la natura e le circostanze imponevano.
Ne sapeva qualcosa mia zia, che intenta a sferruzzare nel retrobottega del bar con
lo scopo di controllare la fede nuziale del marito, era costretta a sentire le più
triviali e irriverenti bestemmie dei giocatori di briscola.
Lo zio, sperando che quelle imprecazioni l'avessero costretta ad andarsene, di tanto
in tanto gettava un'occhiata nell'angolo retrostante dove, nella penombra, la moglie,
imperterrita, riavvolgeva, con gesto nervoso, il filo intorno al gomitolo, alternando
un Ave a un Santa Maria.
Tornai nella città che mi aveva dato i natali. Nella chiesa di Sant'Anastasio,
un santo che non esisteva a San Marco, il confessore volle sapere se qualche volta
avessi bestemmiato: gli dissi di averlo fatto in un modo che a Trieste non si usava.
Con insistenza mi chiese di spiegarmi meglio.
Fui interrotto a metà del repertorio e accompagnato all'uscita.
Affari di cuore.
Una volta che rientrai a casa affannato per aver fatto di corsa i centotrenta gradini
dal portone al nostro appartamento, papà pensò che fosse il caso di
consultare il famoso libro dei grandi mali e dei grandi rimedi.
Il mio caso non era stato ancora inserito nella letteratura medica, per cui decisero
di portarmi da un dottore dell'ambulatorio di via Udine.
Mi auscultò a lungo, mi guardò negli occhi, nella bocca, volle vedere
anche quelle che mamma chiamava i vrigogni e alla fine sentenziò che
avevo un soffio al cuore.
Mamma disse a tutti, all'infuori della signora Domenica, che avevo il soffio al
cuore.
Cominciai a sentirmi importante e ogni volta che la maestra voleva interrogarmi
rispondevo che era meglio di no perché avevo un soffio al cuore.
Anche mio fratello evitò di farmi dispetti perché avevo un soffio
al cuore.
Non morii mai, neppure una volta, e da allora persi la stima di tutti.
Papà, invece, fu colpito da un infarto. Mentre era alla guida del tram si
accasciò sul sedile e fu trasportato d'urgenza all'ospedale.
Si salvò. Quella volta.
Mamma gli raccomandò sempre di non fumare e di non arrabbiarsi, cosa che
puntualmente avveniva ad ogni raccomandazione.
Non smise mai di fumare, anzi dalle nazionali passò alle Gitane e
alle Gauloise che erano così grosse di diametro che io pensavo si
dovessero prendere con tutte le dita della mano.
Le sostituì, perché troppo leggere, con i mezzi toscani.
In quanto ad arrabbiarsi, sembrava non vedesse l'ora che qualcuno lo provocasse.
Forse è il caso di accennare alle condizioni e ai ritmi di lavoro di un tranviere.
Le vetture su rotaie, tram e treni, sono come Giano bifronte, hanno due posti di
guida: nei tram bisognava togliere le maniglie dei comandi per utilizzarle ora in
una direzione ora in un'altra. Non c'era la marcia indietro: bisognava spostarsi
all'altro capo della vettura.
Alcuni tratti di rotaie erano comuni a più linee e quando bisognava cambiare
direzione il guidatore doveva scendere rapidamente dal tram e spostare i binari
con l'aiuto di una leva di ferro che teneva a fianco del seggiolino di guida.
Anche questo, formato da un tubo ad U rovesciata su cui era imperniato il sedile,
era mobile e bisognava spostarlo come le maniglie di guida.
Le fermate erano obbligatorie o facoltative: per queste ultime il passeggero segnalava
la sua intenzione di scendere suonando un campanello.
Il tram non aveva clacson, ma una campana azionata da un rapido movimento del piede.
Il guidatore doveva stare attento a ciò che avveniva all'interno, oltre che
all'esterno.
Papà non essendo alto guidava di solito stando in piedi e quando si sedeva,
data la ridotta misura degli arti, c'era il rischio che un improvviso arretramento
del sedile potesse staccargli le mani dai comandi.
Questo poteva avvenire se, ad esempio, un passeggero invece che reggersi dalle cinghie
o dalle aste, si reggeva dal seggiolino del guidatore.
Una piccola targa avvertiva i passeggeri di non parlare al manovratore e papà
interpretò sempre l'avviso alla rovescia: senza preavvertire l'ignaro passeggero,
scivolava lentamente dal sediolino di legno e, quindi, lo sollevava di scatto colpendo
violentemente le dita del malcapitato.
Ogni volta che raggiungeva il capolinea segnava con una crocetta il numero dei passeggeri
abbattuti.
I tranvieri si distinguevano in due categorie: quelli intransigenti e quelli accomodanti.
Papà apparteneva alla prima categoria.
Anche i passeggeri si dividevano in due categorie: quelli che avevano sempre ragione
e quelli che non l'avevano mai. Papà li odiava entrambi.
Accadde che non essendoci stata alcuna segnalazione mio padre proseguì senza
fermarsi ad una delle tante fermate facoltative.
Un passeggero si lamentò a voce alta e, non ottenendo quella che riteneva
una giustificazione dovuta, indirizzò a mio padre l'epiteto ingiurioso di
mus de mona.
È appena il caso di dire che pur essendo, quella che mamma chiamava pudicamente
a natura, soggetta a diversa valutazione estetica e, quindi, classificabile
nelle categorie ora del bello ora del brutto, un antico pregiudizio, forse risalente
all'epoca augustea, non tollera che il volto maschile sia accostato, metaforicamente
si intende, a quella parte del corpo femminile comunemente chiamata mona.
Un pregiudizio che neppure la successiva cultura mitteleuropea riuscirà ad
estirpare. Mio padre frenò la vettura, premette il pulsante di apertura delle
porte, quasi a voler ammettere un suo errore, poi all'improvviso estrasse la pesante
leva del cambio dalla cavità metallica in cui era infilata e, simile ad un
antico guerriero in partenza per le crociate, si diresse verso il passeggero chiedendogli
a labbra strette di spiegargli chi fosse il mus de mona.
La denuncia, il processo e i provvedimenti dell'azienda ferirono profondamente quel
cuore di leone.
Il colpo più grave lo avrà quando sotto le ruote del tram finirà
un anziano ciclista. Papà suonò disperato la campana, gli gridò
dal piccolo finestrino aperto di spostarsi, tentò di fermare in tutti i modi
la vettura: poi improvvisamente lo vide spostarsi al centro delle rotaie.
Era sordo.
Quando tornò a casa, bianco in volto e ad un'ora insolita, papà ci
disse che era morto un uomo, uno sulla bicicletta. E si mise a piangere.
Il bar.
Ho già accennato in alcuni episodi all'esistenza di un bar e alle sue origini.
Col tempo esso subì radicali trasformazioni anche grazie ad un cospicuo investimento
dello zio Dario che vendette a questo scopo un piccolo appezzamento di terreno.
La zia non gratificò mai lo zio di questo suo sacrificio, considerandolo
un atto teso a colmare in parte la differenza di censo che, a suo dire, separava
la sua famiglia di origine, i Curatolo da Fiumefreddo, da quella del marito, i Vivona
da San Marco.
La proprietà del bar, saldamente in mano alla zia, era condivisa da mia madre,
che però non ne fece mai motivo di interesse, tranne qualche beneficio per
sé, per il marito e per i tre figli.
La multiproprietà faceva sì che ora uno, ora l'altro o, a volte, più
componenti insieme svolgessero la funzione di baristi, in uno spazio vitale di circa
venti metri quadrati a disposizione di esercenti e clienti.
Lo zio investì il ricavato della vendita del terreno per acquistare il banco
frigorifero, per gelati e bibite, e una macchina per il caffè espresso.
In breve si trasformò in quello che oggi si potrebbe chiamare un barman,
pur con le debite differenze evidenziate da un abbigliamento che non doveva lasciare
dubbi tra titolarità dell'impresa e lavoro subordinato.
La zia che non rinunciava al gradino più alto della titolarità, di
tanto in tanto stava dietro il bancone con l'aria di chi è in attesa dell'autobus.
Quando eravamo presenti anche noi, cioè mio fratello maggiore e io, oppure
mio padre, che, in pensione a causa di un infarto, soggiornò per qualche
anno a San Marco, oppure alcuni anni dopo mio fratello minore Diego, il numero degli
esercenti superava di gran lunga quello dei clienti, tant'è che il bar sembrava
fosse stato costruito alla rovescia.
Lo zio Dario attribuiva alla zia la causa dell'allontanamento dei clienti, papà
riteneva che la causa fosse la scarsa efficienza dello zio, il quale, per ritorsione,
affermava che erano messi in fuga dalle fisime di papà verso tutti coloro
che scostavano le tendine facendo entrare le mosche, i clienti accusavano noi di
versare troppa acqua nei gelati per lucrare il carburante necessario alla nostra
Vespa.
C'era un fondo di verità in tutte le reciproche accuse.
La zia, con la sua presenza giaculatoria, metteva in imbarazzo i più incalliti
giocatori di briscola o scopa che nel prendere o gettare con veemenza la carta imprecavano
contro tutte le dignità celesti.
Lo zio Dario aveva spostato il posto di titolarità dal banco di vendita ad
una poltroncina posta all'esterno del locale, dalla quale a malincuore si staccava
per servire i clienti, trovandola immancabilmente occupata da uno dei tanti sfaccendati
che sostavano nella piazza.
Papà aveva una vera e propria idiosincrasia per le mosche, alle quali dava
la caccia armato di una paletta rossa ovunque si trovassero e, talvolta, per evitare
di perderne qualcuna, non esitava ad assestare un colpo mortale anche a quella che
incautamente si riteneva protetta dalla presenza di un cliente.
Noi, avendo studiato, avevamo trovato il modo come aumentare la quantità
di gelato con l'aggiunta di acqua, che, però, ne riduceva la pastosità
e lo rendeva simile ad un ghiacciolo.
Il colpo secco con cui riempivamo i coni non evitava però che il gelato cadesse
al primo tocco di lingua, lasciando un profondo senso di impotenza nei piccoli clienti,
i quali, girandosi verso di noi quasi a implorarne un altro, erano dissuasi dal
nostro atteggiamento distaccato o da una ipocrita alzata di spalle.
Fu in seguito, grazie a Diego, che l'attività riscoprì le antiche
tradizioni artigianali e restò fino alla sua cessione un punto di riferimento
per molte persone, soprattutto giovani.
Il te abruzzese.
Un esercizio pubblico è il luogo dove si conoscono vizi e virtù delle
persone.
Un episodio accaduto a mio zio dimostra quanto possa essere grande, a volte, l'ingratitudine
umana.
Lo zio Dario, come ho già accennato, non vestiva alla maniera dei moderni
barman e, per preservare gli abiti dagli immancabili schizzi di caffè, indossava
qualche indumento più vecchio, a volte con qualche piccolo rammendo, assieme
all'immancabile coppola che, sempre uguale in tutte le stagioni, preserva dal caldo
e dal freddo.
Quella leggera indolenza che gli derivava dall'aver conosciuto momenti tragici e
altri gioviali, unita ad una naturale parsimonia, faceva sì che spesso si
trascurasse nella cura della persona, per cui non era infrequente che non si radesse
per tre giorni.
Questo era il suo aspetto, quando, in una fredda mattina invernale entrò
nel bar un avventore sconosciuto, forse un passeggero dell'autobus giunto chissà
da dove.
Anch'io ero presente, seduto al di qua del banco, intento a seguire una partita
a carte tra due eterni sfidanti.
L'avventore chiese un te.
Lo zio, che alla vista di uno sconosciuto abbozzava sempre un leggero sorriso simile
a quello dei defunti raffigurati negli ipogei etruschi, si diede da fare senza mai
togliergli gli occhi di dosso.
Quello sguardo, che sottintendeva una riservatezza nel porre una domanda, a cui
aveva già dato risposta, sull'identità dello sconosciuto, mi era così
familiare che ne immaginavo anche il seguito che puntualmente arrivava.
Così come arrivava altrettanto puntuale e identica la risposta, da parte
del cliente, di non essere una guardia di finanza, ignaro di essersi sottratto all'ascolto
di un nutrito elenco di sottufficiali dell'arma parenti dello zio.
La delusione che si poteva leggere sul volto dello zio era di breve durata, perché,
sospettoso com'era, si convinceva che quel signore dal soprabito chiaro e il cappello
in testa non volesse rivelare la sua vera identità allo scopo di potergli
contestare, in seguito, un qualche addebito.
Il sorriso di defunto etrusco gli ricomparve come sempre sul volto. Sistemò
con cura il piattino sul banco, scaldò l'acqua nella teiera, la versò
nella tazza di porcellana bianca in cui aveva posato con indescrivibile lentezza
la bustina del te.
Il signore era lì, fermo, in attesa che si sciogliesse il contenuto della
bustina nell'acqua, guardandosi intorno nell'attesa e gettando un'occhiata distratta
verso l'angolo in cui ero seduto.
In una frazione di secondo mio zio si abbassò, prese dal bancone una piccola
bottiglia priva di etichetta e un po' impolverata, tolse il tappino di sughero avvolto
con una pezzuola che ne garantiva maggiormente la chiusura e versò alcune
gocce di un liquido bruno e lievemente denso nella tazza del cliente.
Richiuse e nascose con celerità quel contenitore e il suo misterioso contenuto
alla vista del distinto signore, la cui identità ancora continuava ad incuriosire
mio zio, convinto, comunque, che prima o poi gli avrebbe confidato chi fosse.
Non sempre lo zio riusciva ad interpretare i reali sentimenti delle persone, anzi
direi mai, e nel caso in questione, si sentì chiedere che cosa avesse messo
nella tazza con quel tono inquisitorio tipico di chi è abituato ad interrogare
il prossimo.
Lo zio, che spesso pensava che tutto ciò che piacesse a lui dovesse necessariamente
piacere agli altri, non osava dire ad alta voce che aveva versato nella tazza alcune
gocce di un punch abruzzese, che davano un po' di aroma a quella scialba bevanda.
Non osava per timore che i due giocatori, abituali clienti, potessero un domani
richiedere ciò che mio zio aveva ritenuto di dare solo a quel cliente privilegiato.
Fece alcuni cenni per comunicare al signore che gli stava di fronte di bere senza
fare storie: gli ammiccò, socchiudendo un occhio con fare complice, si portò
l'indice alla bocca, a indicare di non farne parola, seguito dal pollice con cui
mimava l'atto del bere.
Alla seconda, esplicita richiesta, espressa con voce ferma, di renderlo consapevole
sulla natura di quel liquido scuro che si stava lentamente stemperando nel te, facendogli
assumere un colore quasi marroncino, sia io che i due giocatori volgemmo lo sguardo
verso ciò che stava avvenendo a poca distanza da noi.
Lo zio, contrariato dal fatto che la sua reverente attenzione non fosse stata apprezzata
da colui che continuava a ritenere un finanziere in borghese e considerato che rischiava
di trasformare un gesto di debolezza in un diritto da parte degli abituali clienti,
con stizza afferrò la tazza, versandone il contenuto nel lavello, mentre
il cliente si allontanava a passo svelto dal locale.
I due giocatori ripresero la partita e a quello, che, con fare indifferente, gli
chiedeva che cosa avesse messo nella tazza, mio zio diede la stessa risposta che
il generale Cambronne aveva dato agli inglesi nella battaglia di Waterloo.
Conclusioni
Le vicende successive vedranno i tre fratelli prendere strade diverse: Paolo in
Calabria a corrompere le giovani generazioni, Flavio all'IBM di Roma per stare vicino
all'anfiteatro di cui portava il nome, Diego in Canada a contare i soldi degli altri.
Tutti si sposeranno e avranno figli.
Papà morirà in esilio in Toscana, lo zio Dario non subirà l'onta
di assistere alla fine della DC, mamma e zia continueranno a raccontarsi le tante
vicende della vita prima di essere divise dall'Onnipotente.
Oggi, riflettendo con maggiore distacco sui tanti episodi di cui sono stato protagonista
o semplice spettatore, non posso fare a meno di pensare a quanto diversa sarebbe
stata la mia vita se avessi seguito i consigli dei genitori, degli zii e dei vari
precettori.
Sarei stato più attento a scuola, mettendo a frutto insegnamenti preziosi,
e forse mi sarei preoccupato di approfondire la storia, i suoi protagonisti, le
vicende che hanno segnato le diverse epoche.
Sarei stato più assennato e più serio.
E soprattutto non avrei mai scritto "Monàde & Ciutìe
".
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