Lulù. Nomignolo un po' inusuale per un intellettuale del secolo scorso. In un periodo in cui non venivano fatte concessioni a smancerie. Sì, perché Lulù Martino era un austero uomo di cultura. Tanto austero e rigoroso nella ricerca, nelle letture, nell'utilizzo onnivoro di ogni forma di letteratura, quanto solare e scoppiettante, energico e propositivo nelle relazioni umane. Che erano tante e disseminate in ogni parte d'Italia. Lulù Martino si chiamava Raffaele. Luluzzo, che divenne poi Lulù, altro non era che un diminutivo-vezzeggiativo del suo nome di battesimo. Era nato a San Marco nel 1923. Ed era mio padre. La sua prima formazione intellettuale avvenne, dunque, nel ventennio. Crebbe, si può, dire, con il regime fascista. Ho sempre pensato che per un giovane che non ha avuto mai modo, per ragioni anagrafiche, di sperimentare forme diverse di gestione della libertà, se non quella nella quale è vissuto sin dalla nascita, è difficile immaginare un'altra vita, un altro mondo, un altro modo di pensare. Se poi la crescita intellettuale avviene in una dittatura, i rischi di essere anestetizzati dai messaggi più o meno evidenti che in essa si propagano sono alti. Tanto alti che diventa difficile costruire un pensiero critico e, con questo, idee di libertà. Lulù era un ragazzo naturalmente curioso e vivace. La sua famiglia allargata, formata da madre, tre sorelle, alcune zie, il padre e lui, si configurava come un matriarcato dove dominò, almeno fino a una certa fase della sua vita, la figura della madre. Intanto Lulù cresceva e non gli fu difficile, in un ambiente così permeato dal femminile, assumere un ruolo di primo piano. Tanto nelle decisioni quanto nei privilegi che gli venivano concessi per diritto naturale. Il suo statuto di maschio gli conferiva assoluta centralità. La madre di Lulù, la signora Ida, che nutriva per mio padre - unico figlio maschio - un'adorazione assoluta, era una donna colta e autoritaria, di estrazione borghese. Suo marito Oreste era un benestante proprietario terriero, dotato di buoni mezzi finanziari, ma di scarsa cultura. Ragione per la quale, gli fu naturale, in piena umiltà, fare un passo indietro, a favore della moglie, nella cura e nell'educazione dei figli. Non che non fosse un buon padre. Anzi. Fu anche un dolcissimo nonno, per quel che posso ricordare. Diciamo che esercitava un importante codice affettivo, lasciando a sua moglie Ida l'esercizio del divieto e del permesso, della sanzione, della ricompensa e dell'attribuzione di ogni tipo di priorità all'interno della famiglia. Lulù crebbe, quindi, in una condizione di privilegio e nella consapevolezza che il suo ruolo di fratello gli consentisse di accampare dei diritti sulle scelte delle sorelle. Atteggiamento, oggi, inimmaginabile, ma che a quei tempi era abbastanza diffuso. E Lulù, pur ritenendosi un progressista, non esitava a farlo suo. Era pur sempre un calabrese nato nel 1923! Nei confronti delle ragazze, esuberanti e dotate di una bellezza quasi imbarazzante per quei tempi, nutriva sentimenti di gelosia. Per questo, in numerose occasioni, convinse, con metodi non del tutto interlocutori, sciami di corteggiatori a rimanere al proprio posto. Guai a provarci: che non si azzardassero, se il fratello non era d'accordo. Ogni scelta delle sorelle doveva passare per il suo insindacabile giudizio. Non sempre, per fortuna, determinò le loro scelte. Le tre ragazze, oltre che belle, erano spiriti liberi, nei limiti imposti dai costumi dell'epoca, s'intende. Fu così che seguirono più spesso i suggerimenti del cuore e meno i consigli del fratello. Intanto Lulù cresceva e manifestava appetiti sempre più robusti in campo letterario. Era appassionato di poesia e di pedagogia ma, soprattutto di storia. Passione, quest'ultima, sostenuta da un acceso sentimento antifascista che cominciò a farsi strada sin da giovanissimo. Aveva appena vent'anni quando entrò in contatto con Sergio, un giovane partigiano di Fosdinovo, un paesino ai confini tra la Toscana e la Liguria. Più volte Lulù fu sul punto di partire per sostenere quei compagni coetanei che vivevano la Storia, dare sostegno, e imparare il coraggio dai più vecchi che costruivano il nostro futuro. Dai monti svettanti al di là della Linea Gotica giungevano segnali di pericolo: molti studenti del Centro-Sud che avevano tentato l'impresa pagarono con la vita la loro scelta. Lulù era un giovane uomo, impavido e anche un po'incosciente: non si sarebbe fermato per la paura del pericolo. Fu trattenuto, dai problemi di salute del padre che, in quella fase, chiese la sua collaborazione per evitare un grave dissesto finanziario che si stava abbattendo sulle proprietà di famiglia. Lulù, pur ritenendosi un pessimo amministratore, fu costretto, suo malgrado, a dare un freno al suo slancio rivoluzionario e al suo desiderio di condivisione di quella straordinaria avventura che si rivelò poi essere la Resistenza partigiana. Seguì da lontano le vicende di Sergio e dei suoi compagni e salutò con gioia incontenibile il 25 aprile. Lo spirito antifascista, che aveva ormai occupato la sua anima, non lo abbandonò fino alla fine dei suoi giorni. Visse con passione gli anni della ripresa del dopo guerra. Furono anni di speranze e di entusiasmo. Le idee iniziavano a circolare, senza il terrore della censura, e si poteva finalmente gustare il sapore della libertà. Certo, c'era tutta un'Italia da creare, un Paese da ricostruire e delle idee da consolidare e adattare a una realtà in divenire. Mitigato il furore rivoluzionario, Lulù divenne un socialista convinto. Di quelli che si ispiravano a Nenni e a Pertini. Aderì infatti al PSIUP e si batté in prima persona, nella campagna del referendum del 1946, a favore della Repubblica. Fece suoi, col furore che gli era proprio, alcuni slogan di Nenni, "O la Repubblica o il caos", "La repubblica o sarà socialista o non sarà ". Queste parole di augurio e di speranza rispecchiavano la sua vis politica, la passione, il credo democratico, l'autentica fede repubblicana. Valori, questi, che alimentarono la sua statura intellettuale, tanto che divenne un importante punto di riferimento per il PSI sammarchese. Ciò che colpiva di Lulù era l'approccio, per così dire, sanguigno con cui si avvicinava ad ogni esperienza. Un suo amico, dopo tanti anni dalla morte, mi disse che era impensabile un incontro di partito senza l'incazzatura di Lulù. Ma il bello era - sempre a suo dire - che queste incazzature partorivano riflessioni importanti e anche decisioni importanti. Il suo non era un blaterare distruttivo e gratuito da bastian contrario, ma un ruggito, forse un po' impulsivo, ammettiamolo, ma quasi sempre attento, mirato, e arricchito di quel binomio indispensabile alla politica come alla vita: una sintesi di ragione e sentimento. All'interno del partito socialista di San Marco ebbe un ruolo di rilievo, ma mai di primo piano. Suggeriva strategie, ma mai scese nell'agone politico. Le sue teorie erano tenute in grande considerazione e orientarono importanti scelte. Credeva in quello che diceva. Purtroppo non ebbe la fortuna di vivere abbastanza a lungo da assistere alla svolta decisionista e poco limpida di Craxi. La malattia glielo risparmiò. Di sicuro avrebbe preferito vivere e assistere allo sfacelo e allo sgretolamento di quel partito in cui aveva tento creduto. Ma tant'è. A supporto della passione politica, svolgeva un'intensa attività giornalistica, scrivendo per numerose testate. Insegnò con moderato entusiasmo: non era un pragmatico. Fu piuttosto uno studioso attento e formulò in anticipo teorie pedagogiche che, solo dopo essere uscito definitivamente dalla scuola e dalla vita, trovarono attuazione. Dall'inizio degli anni settanta avvennero numerosi cambiamenti nella scuola italiana, ma Lulù non ebbe il tempo di viverli, malgrado in anni non sospetti avesse teorizzato in materia di programmazione, di gestione delle diseguaglianze, di valorizzazione delle diversità. Quando affrontava questi argomenti con l'ospite di turno o, più semplicemente, con mia madre, non lo seguivo con attenzione perché non capivo di scuola e di didattica, né di opportunità d'istruzione o di analisi di bisogni formativi. È evidente, però, che tali suggestioni abbiano lasciato un segno, sia pure inconsapevole allora, nella mia anima. E devo a lui, se a distanza di anni, il mio agire quotidiano di insegnante si è sempre ispirato a un imperativo categorico di giustizia sociale. A casa e in famiglia portava le sue passioni. La poesia: quanti versi recitati a tavola, in macchina, tra una canzone e l'altra. Forse era poco attento alle banali filastrocche cui eravamo sensibili noi bambine: troppo banali, troppo prive di significati intrinseci. Niente "Oh che bel castello marcondiro, ndiro, ndello", ma, piuttosto "I cipressi che a Bolgheri alti e schietti…" Volava troppo alto per me, e non glielo perdonavo. Ma non posso neanche dire che fossi insensibile ai suoi versi. Se penso all'emozione che mi diede quando sentii per la prima volta "Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale…". E poi ancora: "E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino…". Ero piccola, incolta, acerba, non capivo la qualità di quei versi, né l'umana dolcezza del dramma della vita contenuto in quelle parole, ma mi commossi. E mi nascosi perché me ne vergognai. Mio padre, che era ancora più pudico di me nell'esternare i sentimenti (o almeno più pudico di quanto non lo fossi io da bambina, da grande imparai ad essere più sfrontata), si affrettò a concludere e spostò la conversazione su argomenti più leggeri. Era fatto così. Era discreto e riservato ma, nello stesso tempo, allegro ed esuberante. Un compagnone, come si suol dire. Di quelli che attaccano bottone ovunque e che sanno cambiare lessico e frasario a seconda della persona che si trovano di fronte. Così, semplicemente, con disarmante naturalezza. Anche questa sua dote scoprii molto tardi. Mi arrabbiavo quando lo sentivo parlare difficile. Tanto che mi chiedevo come facesse a comunicare con i suoi alunni. Troppo tardi mi resi conto della sua versatilità, rammaricandomi di non essere riuscita ad apprezzarlo prima. Ricordo bene un episodio. Dovevo preparare un lavoro di ricerca sulla Resistenza. Allora ignoravo quanto importante fosse stato per lui quel periodo storico e quanto da vicino, almeno negli ideali e nei propositi spezzati di prenderne parte, lo avesse toccato la Storia. Velata da uno strato di malinconia per il senso di lutto che riaffiora, ma ben nitida per la chiarezza del ricordo, nonostante siano passati più di quarant'anni, ho davanti a me l'immagine di lui, morente, a letto. Gli chiesi se volesse aiutarmi. Senza esitazioni, dopo un rapido scavo nell'archivio delle sue conoscenze, mio padre mi narrò i fatti. Sembrava un manuale. Semplice, lineare, consequenziale, ma anche possibilista e ipotetico, così come si addice a un manuale di storia. Fugò ogni mia incertezza e andò a colmare tanti buchi che rendevano fragili le mie conoscenze. Mi insinuò il valore del dubbio e mi instillò il gusto della ricerca. Evidentemente non successe tutto quel pomeriggio di maggio nella penombra della sua camera. A pensarci bene, vi furono altri episodi - non tantissimi, a dire il vero - in occasione dei quali mia sorella ed io ricorremmo al suo sapere enciclopedico. Ma quel fatto fu rivelatore. Senza consultare un libro, la voce flebile, dolori dappertutto che accompagnavano ogni suo movimento, mio padre mi raccontò con parole semplici la Resistenza. Ed io non potevo non capire. Non potevo non trasformare in conoscenza profonda e duratura quell'ultima lezione. Una lezione tanto disperata quanto preziosa perché diede un primo impulso ai miei progetti di vita. Se oggi c'è passione in quello che faccio, lo devo anche al suo insegnamento. Mio padre fu un uomo laico. Laico nel profondo. Laico perché tollerante, curioso, capace di ascoltare. Alcuni non gli riconoscevano quest'ultima qualità: dicevano che si parlava addosso. È vero: esibiva un eloquio importante, talvolta ricercato. Forse incorreva in ingenue forme di autocompiacimento, ma sapeva ascoltare e si batteva come un leone affinché tutti, ma proprio tutti, potessero esprimere il proprio pensiero. La sua laicità si esprimeva anche con un deciso anticlericalismo. Un anticlericalismo che, col tempo, si attenuò sempre più. Chissà, forse proprio in nome di quel laicismo che gli suggeriva di non decretare sentenze e condanne con leggerezza. Io, cresciuta e allevata ai valori di una religiosità un po' bigotta e superstiziosa, tirai un sospiro di sollievo quando assistei alla sua conversione, giunta, purtroppo, alla fine della vita. Lulù morì il primo giugno del 1972. Una vita fa. Non c'erano i computer né i fax. C'erano solo due canali nella televisione di Stato e si viveva senza cellulari. Non usavamo internet per accedere a ogni tipo di informazione, ma avevamo la casa piena di enciclopedie. Non esistevano gli eBook. In compenso centinaia di volumi di carta riempivano di polvere la nostra libreria. Non si parlava ancora di Unione Europea, né di globalizzazione, mentre, se volevamo mangiare il prosciutto di Parma, bisognava andare fino in Emilia Romagna a prenderlo. Così come i tortellini. A volte mi chiedo come reagirebbe mio padre a tutti i cambiamenti avvenuti in questi decenni. Credo con naturalezza. Con la stessa naturalezza con cui accoglieva le novità. Fu tra i primi in paese ad usare il Super 8, con cui si divertiva a riprendere gli amici, i negozianti in piazza, i compleanni delle figlie. La cosa che più mi rattrista, invece, è che sono ormai poche, in paese, le persone che ricordano Lulù Martino. E quanto più mi rattrista ciò, tanto più valorizzo l'importanza del ricordo. Che si sia grandi o piccoli, buoni o cattivi, il tempo inghiotte e divora i ricordi. Voglio ricordare mio padre per la sua normalità e per la sua unicità. Voglio ricordarlo perché ha amato e odiato, ha sorriso e pianto, ha urlato e perdonato. Voglio ricordarlo perché ha vissuto. Voglio ricordarlo per fermare quelle immagini che popolano ancora la mia memoria. Prima che si polverizzino. Prima che scompaiano. Voglio ricordarlo per lasciare una minuscola traccia della sua vita. E lo faccio perché credo nella magia della scrittura. Annalisa Martino Della stessa autrice "CRIADA", EDIZIONI ASTRAGALO |
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