LA GIORNATA DEL RICORDO
Uno scampato alle foibe.
La legge n.92 del 2004, che fissa al 10 febbraio la Giornata del Ricordo, ha fatto
conoscere una pagina poco nota della storia italiana: le atrocità commesse
dalle truppe di Tito che eliminarono centinaia di persone, gettandole morte o ancora
in vita, in profonde gole carsiche chiamate foibe. Io quella tragedia la conoscevo
fin dal suo nascere perché nel maggio del 1945 abitavo a Trieste, la città
in cui ero nato quattro anni prima.
Abitavamo in via Udine, al numero 26, all'ultimo piano di un edificio che faceva
angolo con la piazzetta Belvedere, nella zona a ridosso della stazione ferroviaria.
I ricordi della guerra si racchiudono nelle fughe in braccio a mia madre nel rifugio
o negli scantinati dell'edificio. Quando l'allarme non ci dava il tempo di lasciare
la casa aspettavamo la fine dei bombardamenti appoggiati con le spalle ai muri maestri.
Dall'alto della finestra del quinto piano vidi l'oste della trattoria che imbracciava
un mitra e un tedesco a terra. Anche il panettiere e il macellaio erano fuori, in
strada, ad aspettare gli ultimi soldati che fuggivano dalla villa Arrigoni, di fronte
la nostra casa. Sembrava che giocassero, anche perché i mitra non facevano
gran rumore. Quella era la fine della guerra. Ma non degli odii.
Qualche giorno dopo mio fratello Flavio ed io sventolavamo dalle finestre una bandiera
tricolore su cui mia madre aveva cucito la stella slovena. Sotto di noi sfilavano
cantando uomini e donne armati. Erano i "titini". Nel piano inferiore
al nostro, il padrone di casa, aveva esposto la bandiera italiana con lo stemma
sabaudo. La notte fummo svegliati di soprassalto da un gridare concitato e da violenti
colpi contro il portone: mio padre, dalla finestra vide un gruppo di "titini"
che tentava di sfondare l'ingresso a calci e spallate. Mia madre e sua sorella Franceschina
avevano acceso la cucina a legna e il marito, Dario Vivona, vi aveva infilato una
camicia nera e un cinturone. Il fumo aveva invaso la casa. Si sentivano gli uomini
che salivano di corsa le scale. Mia madre e mia zia piangevano e pregavano. La camicia
e il cinturone presero finalmente fuoco. Al piano di sotto, dove si erano fermati,
i titini diedero alle fiamme la bandiera sabauda.
Erano le ultime scintille di una guerra definitivamente conclusa. O almeno così
si pensava.
Non saprei dire quando, ma certo nelle settimane successive all'entrata delle truppe
di Tito si sparse la voce che tutti i soldati italiani, i carabinieri, gli appartenenti
a corpi di polizia, dovevano presentarsi in divisa per essere inquadrati nel nuovo
esercito che si sarebbe formato. Mio zio Dario durante la guerra era stato sergente
della Croce Rossa. Con lui aveva svolto il servizio uno sloveno, che abitava lì
nella piazzetta Belvedere. Erano amici e anch'io lo conoscevo bene. Quando mio zio
uscì dal portone di casa in divisa, quello cominciò ad insultarlo,
strappandogli mostrine e gradi e ordinandogli di togliersi quella divisa. Mio zio
rientrò a casa profondamente offeso e addolorato e non seppe spiegarsi il
motivo di quell'improvviso cambiamento di sentimenti, se non con l'odio che gli
"sc_ciavi" (così venivano ingiuriosamente appellati gli sloveni)
avevano verso tutti gli italiani. Alcuni giorni più tardi giunse la notizia
che la gran parte di coloro che si erano presentati in divisa erano stati "infoibati"
e addirittura che in alcune macellerie erano stati esposti corpi di italiani uccisi.
Se ne parlò a lungo in casa e quella piccola comunità slovena che
viveva nel quartiere fu guardata con ostilità. La loro diretta partecipazione
alla cacciata dei tedeschi, temuti e odiati, non fu vista come un atto di liberazione.
Anche nella nostra famiglia, la presenza di un giovane partigiano, il figlio acquisito
di Marietta, un'altra sorella di mia madre, e l'appartenenza comunista del padre,
furono all'origine di qualche discussione un po' accesa.
A distanza di anni, ripensando a quanto era accaduto in quegli anni a Trieste, mi
sono convinto che mio zio si salvò grazie a quel gesto apparentemente ostile.
Lui non potè mai più accertarlo perché nel 1946 ritornò
con la moglie a San Marco Argentano, definitivamente.
Paolo Chiaselotti
Nelle foto in alto la piazzetta Belvedere e la casa abitata dai protagonisti, sotto
Dario Vivona, al centro, e a sinistra colui che gli salvò la vita.
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