L'ESTATE DEL 1981
Avevamo, quasi tutti, su per giù, vent'anni. Anno più anno meno. A
quei tempi era sempre festa. Bastava uscire, andare per strada, incontrare gli altri
con cui condividere allegre chiacchierate e lunghe risate. Tutto sembrava ruotare
intorno a noi. Il paese era il luogo per eccellenza dell'incontro. Incontro che
aveva come contraltare un serrato controllo sociale. Ma a vent'anni non giudichi
e non ti curi di chi ti giudica. E noi, come tutti quelli della nostra età,
sicuri e apodittici, eravamo certi di essere nel giusto. Pieni di energia e di fiducia
nelle nostre forze, avevamo consapevolezza della nostra giovinezza, quell'importante
capitale che ci avrebbe consentito di investire nel futuro, dal quale ci aspettavamo
ogni bene. Sognavamo una società perfetta che prima o poi - ne eravamo certi
- si sarebbe realizzata. E non volevamo accontentarci. Era bello condividere quei
sogni. E quanto più si condividevano, tanto più si consolidavano e
ci rendevano forti e determinati.
Nell'estate dell' '81, mia sorella Ida ed io, studentesse universitarie, cominciavamo
a dare voce a quelle idee politiche che dagli anni dell'adolescenza in poi si erano
venute formando.
Non
c'è un motivo per cui tali idee vennero fuori solo allora. O almeno, non
ce n'è uno in apparenza. Pur avendo vissuto, sia pure da spettatrici, i fermenti
politici degli anni di piombo, non avevamo dato ancora corpo a quelle idealità
che lentamente si stavano irrobustendo in noi. D'altra parte, malgrado frequentassimo
un ambiente stimolante come quello universitario, avevamo introiettato la priorità
dello studio che, comunque, veniva prima di tutto. Tanto che ci sembrava quasi inconcepibile
sottrargli del tempo da dedicare, invece, ad altre attività.
Crescere, tuttavia, significa anche comprendere che il progetto del futuro, così
come l'azione del presente, le relazioni con gli altri e le scelte di tutti i giorni
non possono prescindere da una visione politica della realtà. Come avremmo
potuto aspirare ad una nostra realizzazione personale in un mondo che non ci piaceva,
o ci piaceva solo in parte? In una società imperfetta che urlava giustizia,
uguaglianza e onestà? E chi, se non noi, giovani di belle speranze, avrebbe
potuto agire per operare quei cambiamenti che l'avrebbero migliorata?
Fu spontaneo avvicinarci al gruppo di ragazzi che, con entusiasmo e passione, avevano
tirato su, a S. Marco, la sezione del Partito comunista. L'approccio fu fluido e
spontaneo. E si creò quasi immediatamente una bella intesa, fatta di progetti,
di attività febbrili e - com'era costume di quella fase storica - di lunghe
disquisizioni filosofiche che si protraevano fino a notte inoltrata. Gli attivisti
più alacri del gruppo erano Angiolino, Carlo, Giovanni, Pasquale, Pio, guidati
dai più esperti, navigati e di poco più anziani, Enrico e Paolo. Enrico,
teorico ortodosso, documentatissimo. Un po' logorroico, i suoi interventi fiume
nelle riunioni del direttivo erano attesi e temuti da tutti. Attesi per il valore
delle proposte. Temuti, non per la qualità o la coerenza dei contenuti che
erano indiscutibili, ma per la pletora di digressioni che ci regalava. Curioso e
aperto al dialogo anche con chi non aveva l'abc della politica, era un vero piacere
parlare con lui e apprendere da lui l'arte del far politica. Il secondo, Paolo,
veniva da Trieste (un immigrato triestino era già di per sé una cosa
bizzarra, in un Paese dove il flusso migratorio avviene all'incontrario), ed era
uno strano miscuglio di cultura mitteleuropea e calorosa solarità mediterranea.
Devo dire, inoltre, che, erano in molti a riconoscergli il merito di aver dato una
certa impronta, per così dire, asburgica, a una sezione che, sorta in una
realtà di paese, era stata governata fino ad allora, si fa per dire, da una
certa attitudine all'improvvisazione. Era stato sindaco per un breve periodo di
tempo e la sua puntualità prussiana, il suo senso della legalità (ancora
un po' traballante da noi), il suo rigore nel far eseguire le leggi gli erano valsi
il soprannome (evidentemente dispregiativo per i suoi detrattori) di "austroungarico"
e l'accusa di voler frenare lo sviluppo edilizio del paese sol perché si
opponeva con forza al fenomeno dell'abusivismo. Insomma era un soggetto per nulla
nazionalpopolare. Almeno per gli avversari politici e per tutti quelli che avevano,
fino a quel punto della storia del paese, soprasseduto all'osservanza non proprio
pedissequa della normativa in materia di amministrazione comunale. Per tutti i compagni
di sezione, invece, era un angelo caduto dal cielo. Cielo laico, ma sempre cielo!
Questa bella sezione era, dunque, organizzata e accogliente, forti gli ideali che
l'animavano, e decisi e leali i compagni (ci si chiamava così tra militanti,
allora) che la frequentavano. Contadini bruciati dal sole che conoscevano il sacrificio
e la fatica, lavoratori onesti dalle mani callose che rivendicavano una diversa
distribuzione della ricchezza, qualche donna (ancora poche, all'epoca) che forniva
i primi rudimenti di un'emancipazione che di lì a poco avrebbe travolto tutti
come un fiume in piena. E poi era animata da giovani, che davano il loro apporto
instancabile: dalla semplice manovalanza alla riflessione sulla dialettica stato-individuo,
operaio-padrone, uomo-società.
Fu quello un periodo magico per il PCI in generale e per tutte le sue realtà
decentrate. Anche quelle più periferiche come la nostra. Il sogno si intrecciava
con la prassi politica e la dimensione pubblica confluiva in quella privata. E viceversa.
Naturalmente circolavano ancora molti luoghi comuni intorno ai comunisti. Dalla
necessità di questi ultimi di andare in giro con le famigerate "pezze
al culo" per esprimere tutta la loro coerenza, alla leggendaria attitudine
a "cibarsi di bambini" e ad escludere dalla propria vita la dimensione
del sentimento per asservirla al partito. Il pregiudizio stalinista, negli anni
ottanta, era ancora un macigno che pesava sulla credibilità e sulla carica
innovativa, soprattutto in tema di diritti civili, di questo partito. Ciononostante,
dai tempi di Togliatti a quelli di Berlinguer l'aria che si respirava era profondamente
mutata e anche i più irriducibili filosovietici cominciavano a venire a patti
con nuove modalità di interpretare la politica. L'etica del sentimento e
l'affermarsi di rivendicazioni che facevano capo alla persona e non solo al gruppo
cominciavano a farsi strada grazie anche alla presenza delle donne sempre più
numerose. Noi ci avvicinavamo al partito proprio in questa fase di grande espansione
e di ripensamento. E non ci fu difficile inserirci.
L'Italia ha sempre vissuto il suo sviluppo a macchia di leopardo. Ciò significa
che se alcune città del Nord registravano allora un attivismo molto effervescente
legato, per esempio, ai consigli di fabbrica che, a loro volta, costituivano un
importante collante tra compagni e militanti, i problemi di un piccolo paese della
provincia meridionale erano ben diversi. Ricordo le lotte intraprese per la mancanza
di acqua e luce in alcune contrade comunali o le prime timide richieste di consultori
e di centri sociosanitari per salvaguardare la salute delle donne e sancirne l'autodeterminazione
in tema di maternità. Nell' '81, peraltro, il fronte dei "no" aveva
ottenuto una vittoria schiacciante nel referendum sull'aborto. Anche il sud, benché
esposto alle pressioni della gerarchia cattolica, aveva dato il suo contributo a
questo risultato.Questo voleva pur dire qualcosa. Come esponenti del sesso femminile,
ci sarebbe piaciuto inoltrarci in provocazioni più dirette. Tuttavia, mentre
le nostre compagne metropolitane, da Milano a Torino, da Roma a Napoli, rivendicavano,
in plateali manifestazioni, la proprietà del proprio utero e il proprio diritto
di gestirlo, noi ci dovevamo accontentare di declinare le prime regole fondamentali
della parità. Noi ci trovavamo ancora ai primordi delle lotte. Purtroppo
si era in poche e c'era, almeno dalle nostre parti, una certa reticenza ad esporsi.
Ricordo i primi giornalini sul femminismo e i primi manifesti affissi in bacheca.
Misurati sì, ma decisi. Volevamo far sapere a tutti che c'eravamo e che per
la prima volta si mettevano in discussione dei privilegi che fino ad allora erano
stati ritenuti sacrosanti, come l'esclusiva, da parte degli uomini, delle decisioni,
dell'ultima parola, della scelta insomma, sia nel pubblico che nel privato. Ricordo
una vigilia dell'otto marzo, ci recammo alcuni compagni (inequivocabilmente di sesso
maschile, con tanto di barbe e di baffi) ed io ad affiggere un grande manifesto
che parlava a nome di tutte le "donne" del PCI (ero da sola in quel periodo,
ma rappresentavo pur sempre un elemento di novità, un modo diverso di far
politica). Si trattava di gesti simbolici che avevano lo scopo di sottolineare che
i tempi delle deleghe erano finite. Era giunto il momento di ascoltare in prima
persona le donne. Che avevano tanto da raccontare. E da chiedere.
Ma voglio ancora tornare indietro con i ricordi a quell'estate del 1981. Varcavamo
per la prima volta la soglia di questa sezione organizzata, tappezzata dai manifesti
dei leader storici della sinistra. Al centro campeggiava il poster di Antonio Gramsci,
accanto ai lineamenti spigolosi di Lenin e alla chioma lanuta di Karl Marx. Era
suggestivo vederli tutti insieme. Era come entrare nella storia di quella sinistra
che avevamo letto solo sui libri. In un angolo, accanto al tavolo delle assemblee,
il ritratto nobile e un po' algido di Berlinguer. Una parete del locale era stata
adibita a biblioteca con l'immancabile "Capitale" di Marx, "Il Manifesto
del partito comunista" di Marx ed Engels, "Le lettere dal carcere"
di Gramsci, qualche annata del "Calendario del popolo" e di "Rinascita",
tutti vangeli del buon militante. Numeri dell' Unità, sparsi qua e là
e qualche altro quotidiano, come Repubblica, Paese Sera, Il Manifesto. Faldoni contenenti
delibere e determine degli ultimi consigli comunali e taccuini e quaderni riportanti
schemi, appunti e scalette di interventi. Disegni e schizzi caricaturali fatti da
Paolo un po' dappertutto. Su un'altra scrivania, un po' più piccola, era
riposta una bella macchina da scrivere, già da allora un pezzo di modernariato
e su un mobile di metallo, all'ingresso, l'immancabile ciclostilo.
I compagni (tutti, indistintamente, anche quelli che non ho citato) fecero di tutto
perché ci sentissimo a casa, mettendoci a nostro agio. Parlavamo dei più
svariati argomenti, di cinema, di letteratura, di musica, di politica, di storia
e, lentamente, iniziavamo ad aprire i nostri cuori, confessandoci reciprocamente
sogni e aspirazioni, paure e timori. La cosa che mi colpì più di ogni
altra fu però la naturalezza con cui Paolo ed Enrico, che sfioravano entrambi
i quarant'anni (ai nostri occhi erano uomini, per così dire, maturi) si univano
alle nostre lunghe ed amene serate e imparavano ad aprirsi e a raccontarsi. In un
modo, a loro dire, abbastanza inedito. Piano piano spostammo, almeno alla sera,
il nostro punto di ritrovo a casa di Paolo che abitava proprio sulla sezione. Si
può dire che la sua casa fosse un prolungamento della sezione. O viceversa.
Paolo era da poco rimasto vedovo e aveva dei figli ancora piccoli. Era più
facile per noi, quindi, trasferirci a casa sua e trascorrere lì quelle ore
in piacevole compagnia. Si rideva, si preparavano colossali spaghettate e ci si
divertiva con poco. E non mancava una discreta dose di autoironia. Così come
non mancavano momenti di malinconiche riflessioni. Ci si confrontava sulla vita
e, contemporaneamente sulla politica. E si faceva strada, sempre più, dentro
di noi, l'idea secondo la quale è impossibile scindere le proprie visioni
del mondo, il proprio modo di vivere anche molto personale, da quelle scelte che
vanno oltre la sfera privata e sconfinano nella pianificazione della cosa pubblica.
Non mancavano accesi dibattiti e profonde divergenze ma c'era una sensibilità
che ci accomunava profondamente e ci faceva desiderare le stesse cose. Quelle fondamentali,
insomma. Tanto per fare un esempio: era impensabile sognare una società di
eguali e contemporaneamente non perseguire la medesima uguaglianza di diritti nella
coppia, sul lavoro o nell'amicizia. E questo presumeva rispetto, capacità
di ascolto, attenzione agli altri. Qualità, queste, alle quali tutti noi
eravamo palesemente sensibili.
Le amicizie tra persone di sesso diverso suscitano sempre, soprattutto in una piccola
comunità, morbosa curiosità. La sezione e la casa di Paolo (che ne
era diventata il prolungamento) avevano assunto, per alcuni ipocriti benpensanti
di trent'anni fa, le caratteristiche della Gomorra dei comunisti. Si rideva, si
mangiava fino a tardi, si beveva e, secondo l'immaginario popolare, si faceva ben
altro, data la promiscuità dei presenti (ragazzi e ragazzi di diverse età!).
Chi l'avrebbe mai detto, invece, che giocavamo per delle ore ai mimi, a Scarabeo,
che facevamo gli indovinelli sui film e sui personaggi della letteratura, che raccontavamo
storie vere e inventate ed esilaranti barzellette? Tra noi, il più grande
affabulatore era Paolo che con la sua strana fusione di sonorità calabro-giuliane
e con quei buffi neologismi derivanti dal lavoro di adattamento anche linguistico
che egli faceva, a S. Marco, ci incantava con racconti che attingevano contenuti
a varie sfere umane, da quella più privata a quella storica a quella dell'impegno
civile. Era un nuovo modo di fare politica che comportava una condivisione più
profonda, più intensa ma altrettanto ricca di quella ricerca di cambiamento
che può avere una strategia formalizzata di partito.
Quando mi trasferii a Milano, dopo che le nostre strade si furono divise, le stesse
persone con cui avevamo vissuto questi importanti momenti di crescita mi confessarono
che anche loro sperimentavano con noi delle nuove modalità progettuali che
fino a poco tempo prima non avrebbero concepito. La presenza femminile, in sostanza,
su loro stessa ammissione, dava un valore aggiunto al progetto politico e gli conferiva
maggiore umanità. Ricordo serate intere a commentare quelle poesie in rima
che sono i testi delle canzoni di Guccini o i versi intimi e nello stesso tempo
rivoluzionari di De André. Percepivamo, con sincera partecipazione, le forti
idealità presenti in versi come "un'altra grande forza spiegava allora
le sue ali, parole che dicevano gli uomini son tutti uguali" di Guccini,
oppure l'attenzione agli emarginati diffusa nelle parole "… ma se capirai,
se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli vittime di
questo mondo", di De André, e ancora, il rifiuto della guerra
nei versi di Rimbaud che ispirò l'ancor più famosa "Guerra di
Piero" di De André: "… a bocca spalancata, a testa nuda,
un giovane soldato, con la nuca nel nasturzio azzurrino, dorme; sotto le nubi è
disteso nell'erba, bianco nel letto verde su cui piove la luce [… ]I profumi
non fanno fremer le sue narici. Egli dorme nel sole, con la mano sul petto calmo.
Ha due fori rossi, a destra, sul costato. " Non voglio far retorica
ma le poesie scritte o recuperate dai cantautori dell'epoca ci furono di grande
insegnamento. Nei nostri discorsi c'era posto per l'amore come per la rivoluzione,
per Dio come per il peccato, per la vita come per la morte, per la guerra come per
la pace. Saremo stati anche un tantino logorroici, ma ricordo quei momenti come
una fase di grande trasformazione intellettuale.
A suggello di questa bella amicizia, quell'anno organizzammo una grandiosa festa
dell'unità. Ricordo che idee e proposte si dipanavano a grappoli. Così
come la collaborazione dei compagni si fece congrua e numerosa. Fu una festa organizzata
con pochi mezzi: anche un cantautore del calibro di Paolo Pietrangeli chiese un
cachet solo simbolico. Contavamo sulle nostre forze. Con alcuni ragazzi di Torino
organizzammo un gruppo di musica etnica che suonava per le strade. Alcuni compagni
improvvisarono la sagra dello spezzatino: squisito. Qualche giorno prima ci eravamo
recati a Cosenza e in men che non si dica comprammo dei libri un po' più
avvincenti di quelli presenti in sezione, per allestire uno stand "ragionato"
del libro che non fosse un'accozzaglia casuale di pagine. E ancora: l'orchestra,
rimediata con dei ragazzi non professionisti che, però, sapevano accontentare
gli appetiti modesti (ispirati al principio del "purché si balla e si
canta"), in fatto di musica, del pubblico. Il gruppo folk di Fagnano e la lotteria
realizzata esclusivamente con la collaborazione dei commercianti e degli abitanti
del paese. Dibattiti pochi e molte mostre, fatte per lo più con materiale
di recupero. Non mancavano i manifesti sulla condizione della donna. Fu un successo
ma soprattutto fu la ratifica di un'intesa che si era creata e nella quale erano
confluite forze diverse che, però, sapevano convergere.
Ebbe inizio un periodo proficuo per la sezione di S. Marco. Volevamo creare un riferimento
per le donne. Organizzammo dei dibattiti insieme a Wilma, la dottoressa Giovane.
Ci recammo in campagna dove più gravosa e difficile era la condizione femminile.
Era bello vedere donne, giovani e meno giovani, che finalmente abbattevano il muro
del silenzio, uscivano dai loro angusti coni d'ombra e denunciavano i loro disagi.
I problemi erano tanti ma il dato importante era che si parlava dei loro problemi
per la prima volta.
Eravamo sulla buona strada. Le adesioni a queste iniziative aumentavano. Di tanto
in tanto ci giungevano rinforzi significativi come Gloria, Elsa Attanasio, Viviana
Lippo e le loro amiche che, con le proprie esperienze, ci offrivano insostituibili
apporti culturali. Frattanto mi ero laureata, passò un'altra estate ricca
di cose, festa dell'unità compresa, e nel settembre dell' '82 mi trasferii
a Milano. Questa partenza determinò, innanzitutto in me, un inevitabile cambiamento
nel mio rapporto con la politica.
Il mio impegno si interruppe bruscamente perché mi trovai in un'altra realtà
sociale e politica. Il lavoro (che - sempre sia lodato - conquistai immediatamente
dopo la laurea), il contesto diverso, il percorso non sempre fluido di adattamento
a una realtà nuova mi allontanarono dalla politica, nel senso più
attivo del termine e mi relegarono, mio malgrado, in una dimensione privata e marcatamente
individualistica. Seguivo le vicende, come fa ogni normale cittadino dotato di un
minimo senso civico, ma da spettatrice. Solo più tardi mi resi conto che
l'impegno politico si configura per molti come un lusso. Una lavoratrice o una madre
di famiglia o una ragazza sola al suo primo impiego e, magari, scaraventata in un
altrove lontano dai propri vissuti, possono offrire un contributo molto limitato
a tutte quelle nobili attività orientate al cambiamento. E nulla vieta che
vivano questa privazione con grande sofferenza.
Mantenni vivi, comunque, i miei ideali di giustizia e di uguaglianza che, in un
modo o nell'altro entrarono a far parte della mia prassi di vita e di lavoro e che
ho cercato, attraverso le azioni e l'esempio, di trasmettere a mio figlio.
Vedo oggi tanti giovani impegnarsi. La cosa mi rende ottimista, un po' nostalgica
forse, ma estremamente fiduciosa. Rifiuto le leggende sul cosiddetto disimpegno
e sulla superficialità giovanili. Certo, è molto difficile, oggi,
fare politica. Viviamo l'epoca delle cosiddette "passioni tristi" e tanti
giovani di buona volontà hanno dovuto compiere un percorso di ideologie fai-da-te
nelle quali riconoscersi, visto che i rappresentanti della politica hanno smesso
da tempo di incarnare pensieri, idee e speranze. Una volta elaborata la propria
ideologia, hanno imparato a muoversi, nella speranza che il proprio contributo possa
offrire spiragli di aspettative a una generazione totalmente disorientata. A me,
che sono, ora, una "diversamente giovane" e una "diversamente militante"
sembra che, a differenza della nostra passata generazione di giovani, quella attuale
sia costituita da ragazzi concreti, determinati, che, proprio per le difficilissime
contingenze economiche e sociali del presente, devono saper trovare delle risposte
soddisfacenti.
L'estate dell' '81 sembra molto lontana. La ricordo con piacere per le conquiste,
non solo personali, fatte in quel periodo, ma per la vivacità con cui si
faceva cultura. Non sono, tuttavia, ripiegata, sul passato e mi rivolgo con speranza
e fiducia alle nuove generazioni che si muovono più di quanto abbiamo fatto
noi, su terreni molto accidentati, stando attenti a non alterare equilibri sempre
troppo precari. Le storie del passato non devono essere scritte ad uso e consumo
di chi le ha vissute ma devono insegnare, sia pure nel loro piccolo, qualcosa a
chi vive il presente ed ha il compito gravoso di progettare il futuro. I tempi ed
i contesti sono cambiati, ma gli ideali, quando sono autentici - e se ci sono -
non mutano. E i fatti mi hanno confermato, col tempo, che è opportuno non
perdere di vista tali ideali ma agirli quotidianamente, in casa, al lavoro, nel
rapporto con gli altri. Anche se talvolta si ha paura del diverso, del contrario,
di chi lotta per cambiare e di chi porta avanti la limpidezza del suo credo e di
una coerenza dura a morire Se la visione del mondo è bella e pulita, saranno
belli anche i progetti politici che ad essa si accompagnano. Questo lo appresi per
la prima volta nell'estate del 1981 in un contesto di provincia tradizionalmente
chiuso e poco permeabile al cambiamento. Lo devo a me stessa e a mia sorella, alla
poesia e alla saggistica, alla musica e alla narrativa, ma lo devo, soprattutto,
a quelle persone che mi accompagnarono in quell'esperienza estremamente formativa.
Annalisa Martino
(pubblicata nel 2011)
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