DOPO IL CORONAVIRUS (Parte prima)
Erano seduti sul prato della villa comunale all'ombra di un salice piangente a raccontare storie impossibili. Marco, Piero, Massimo, Samuele e Salvatore, cinque adolescenti di tredici anni con una gran voglia di fare, seppellire le noiose giornate che passavano lente nel piccolo e nuovo paese ai piedi di quello antico e storico centro medioevale, con le case spalmate sulla collina.
Il paese non era stato risparmiato dall'epidemia del virus, battezzato COVID19 all'inizio del duemila e venti, e si era portato, dopo lenta agonia, sottoterra, tutta la popolazione dai quarantenni in su; nessun vecchio, nessun pensionato era sopravvissuto all'epidemia, la persona più anziana adesso aveva poco più di quarantacinque anni. Il focolaio si era sviluppato nel vecchio centro storico quando ormai la prima fase del contagio sembrava superata e la gente iniziava ad avere contatti più stretti, dopo la lunga e snervante quarantena, chiusi in casa per novanta giorni. La gente aveva voglia di stare insieme e non passava giorno nel centro storico senza un evento; le sagre si susseguivano senza sosta, tutti avevano voglia di stare insieme, strusciarsi nella folla, inebriarsi. Il vento termico, sempre presente, portava verso valle profumi di cipolla e salsicce arrostite, musiche, canti e balli. Nei vicolo, ognuno dava sfreno al lungo periodo represso in quarantena. Il gregge fremeva eccitato. Purtroppo il virus silente era mutato nelle cellule delle persone che sembravano ormai guarite, diventando molto ma molto letale e in brevissimo tempo gran parte della popolazione era passata con la squadra dei morti. Non c'era verso di arginare la pandemia così vennero prese restrizioni drastiche, il centro storico venne chiuso, murato con la gente dentro, solo ai più giovani venne permesso di uscire dopo accertamenti sanitari. Quelli rimasti, man mano che morivano, venivano cremati in una vecchia fornace di laterizi modificata per l'esigenza; nel giro di sei mesi non restò in vita nessuno nel lazzaretto del centro storico, Lazzaretto Corona, così lo chiamavano in ricordo della peste. Il paese riprese a vivere a valle, nella pianura nella vecchia zona industriale sulle rive del fiume Fullone. Ormai erano passati più di cinque anni che nessuno metteva piede nel vecchio borgo ricco di storia, probabile rifugio dei Sibariti sopravvissuti alla disfatta del 510 a.c.
Marco guardava il vecchio paese, che ancora incuteva timore, ma emanava ancora attrazione. La vecchia torre Normanna che da mille anni si ergeva sopra il paese, circondata da un stormo di cornacchie, era un punto cospicuo che ricordava gli antichi splendori del paese dei nobili, i Sammarchesi.
"Voglio visitare la torre" disse Marco ai compagni.
Poi si alzò, montò sulla bicicletta e si avviò verso la collina seguito dal resto della compagnia. Percorsero la stradina che costeggiava il fiume e in breve tempo arrivarono sul ponte del Mulino di Mezzo, ma non era possibile proseguire sulla vecchia pista a causa delle recinzioni fatte con rotoli di filo spinato ormai incastrati con la vegetazione di spinosi rovi impenetrabili. Nella vecchia piazzetta antistante il vecchio mulino ad acqua, c'era una tabella segnaletica dove era riportata la mappa del vecchio paese dove si potevano leggere i nomi delle vie e dei monumenti. Massimo che si era allontanato dal gruppo notò un ruscello che veniva dal paese in mezzo a una gola verde e sfociava nel fiume; chiamò il resto della banda e dopo aver nascosto le bici si inoltrarono nel ruscello risalendo verso il paese. Dopo qualche centinaio di metri, camminando nelle acque fresche, si presentò agli occhi dei ragazzi un vecchio ponte normanno occultato in gran parte dalla folta vegetazione. Più avanti l'acqua del ruscello sgorgava fuori da un grosso cunicolo che si infilava nella collina, risalendo in galleria.
I ragazzi avevano lasciato le bici ma si erano portati dietro le luci a pila montate sulle forcelle e senza perdersi d'animo avanzarono nel buio fino ad un tombino verticale molto largo da dove l'acqua scendeva a cascata su un lato. Sulla parete asciutta del tombino c'era una scala a pioli fatta con tondini di ferro infilati nella parete di calcestruzzo, in cima c'era una grata; la grata di protezione del tombino era solo poggiata e con poca difficoltà venne aperta e la luce del giorno li abbagliò.
Tutt'intorno c'erano vecchie case imprigionate nel verde, da una porta aperta usciva un grosso fico che ormai da anni aveva preso possesso dall'abitazione orfana dei proprietari. Le sue fronde davano ombra alla piccola piazzetta. La banda dei cinque esploratori si infilò timorosa nei vicoli deserti e al loro passaggio volavano spaventati i colombi che avevano colonizzato il quartiere e curiosi conigli si affacciavano dalle tane scavate nelle vecchie mura.
Girato l'angolo entrarono in una piazzetta e alla loro vista si presentò un monaco che faceva capolino in mezzo all'erbacce di un giardinetto recintato; tre dei ragazzi urlarono per lo spavento e indietreggiarono spaventati a morte, mentre Samuele e Salvatore si sbellicavano dalle risate perché avevano visto bene che il monaco era una vecchia statua di padre Pio.
Uscirono dal vicolo del vecchio centro storico e si affacciarono sul corso principale. La vegetazione aveva preso possesso incorniciando le vecchie insegne dei negozi. In ordine c'erano una macelleria, poi un negozio di frutta e verdura, un bar e a seguire un tabaccaio, un'altra macelleria, un ferramenta e poi una piazza, piazza Umberto si leggeva su un angolo in alto della parete di un palazzo, pitturata con caratteri neri su un riquadro bianco.
Vecchie autovetture arrugginite stavano parcheggiate da anni, all'interno c'erano dei libri e vecchi giornali ingialliti, su un balcone al primo piano, attaccata all'inferriata c'era una vecchia telecamera che guardava senza vedere ormai da anni la piazza e il corso; apparteneva a prof il quale aveva un sito web e prima del dramma postava giornalmente le immagini del paese e della gente che passeggiava tra le bancarelle del mercato domenicale.
Si stava facendo tardi e il gruppo si rinfilò nei vicoli per rientrare a casa prima che facesse buio, con la promessa di ritornare il giorno dopo, ma non avevano fatto il conto con il dedalo tipo casba dell'antico centro storico.
Si ritrovarono due volte nello stesso punto e non ne venivano a capo. Volevano fare la cosa giusta, quella di scendere dritti a valle ma non c'era verso di uscirne, si trovavano sempre o in un cortile senza sbocco o dovevano per forza girare e risalire verso sopra. Il sole tramontava allungando le ombre delle case e in alcuni punti era già buio.
Nessuno aveva telefonino perché le nuove leggi lo proibivano ai minori e non c'era modo di chiamare le famiglie.
Si infilarono in una chiesa per passarvi la notte, certi che in quel posto sacro sarebbero stati protetti da qualche angelo custode. Sui candelabri c'erano ancora le candele e diverse erano posate sull'offertorio.
Ogni passo e ogni movimento che facevano era amplificato in quell'ambiente. Per farsi coraggio iniziarono a cantare l'Avemaria di Schubert e mentre cantavano Piero tirò dalla tasca un accendino e candidamente iniziò ad accendere le candele.
"Ma perché non lo hai tirato fuori prima quest'accendino, avevi paura che si consumasse?" lo rimproverò Massimo.
Il poveretto si scusò dicendo che non sapeva di avere in tasca l'accendino, lo aveva trovato il giorno prima per terra, lo aveva messo in tasca e solo adesso, mentre cantava, lo aveva toccato accidentalmente.
Sui lati della navata molte statue di gesso vibravano sotto la luce flebile delle candele, erano i dodici apostoli. Massimo era paralizzato immobile, bianco come le statue, con gli occhi fissi su qualcosa che non era una statua anche se aveva le sembianze di San Giuseppe; alzò lentamente il braccio con indice teso per indicarlo ai compagni che appena lo videro si strinsero a gruppo come fanno le sardine spaventate, incapaci di parlare, solo guaiti uscivano dalle bocche aperte. Non avevano mai visto in vita loro un vecchio, ne avevano visti tanti nelle foto o nei vecchi film, ma uno in carne e ossa mai.
"Che ci fate nella mia chiesa?" chiese il vecchio con voce rauca
"Lo sapete che è vietato entrare in paese, ma soprattutto come avete fatto ad entrare?"
Piagnucolando Piero pregava il signore di non ucciderli:
"Tenga le regalo questa, è la luce della mia bicicletta, la batteria è carica; ci siamo persi, siamo entrati per sbaglio in paese e adesso non troviamo il pozzetto per uscire"
Visto che il vecchio non si mostrava pericoloso ma lo guardava con tenerezza, si fece coraggio e iniziò a tempestarlo di domande:
"Ma tu sei vero o sei uno di questi santi? Quanti anni hai? Abiti qua? Come ti chiami?"
Il vecchio con garbo lo invitò al silenzio, ma anche lui era curioso: erano tanti anni che non vedeva dei ragazzini e avrebbe voluto accarezzarli, abbracciarli ma non voleva spaventarli.
"Avete fame? Sì che avete fame. Vediamo cosa possiamo preparare per cena" Poi l'uomo cambiò tono e timbro di voce.
"Vuoi anche dargli da mangiare a questi stronzetti? Hai scordato cosa ci hanno fatto i loro genitori? Sei proprio scemo e la colpa è di tua madre che ti ha sempre viziato."
"È sempre colpa mia?! invece la colpa è tua che non sei mai presente e sei buono solo a gridare e a minacciare. Vedi che hai spaventato questi giovanotti?" rispose il vecchio a se stesso ma con la voce di una vecchia signora.
L'uomo negli anni di solitudine aveva preso tre personalità, in lui c'erano padre madre e figlio. Poi con sguardo amorevole da nonnina consolò i ragazzi che oltre ad essere terrorizzati erano molto confusi.
"Probabilmente quando s'invecchia l'uomo acquista più personalità" pensarono i ragazzi.
Poi il padre si prese la scena e rivolgendosi a figlio e moglie che erano nella sua testa disse:
"Raccontategliela la storia, fategli sapere come ci hanno trattato, parla tu Ersilia, ma non tralasciare niente altrimenti mi arrabbio e mi metto a strillare porco di un cane pulcioso."
"Calmati Giova', stai calmo, hai ragione ma non sono troppo piccoli per sapere la cruda verità."
La faccia diventò di nuovo dura e senza proferire parola, mosse lentamente la testa a destra e a sinistra lentamente. Aveva detto no.
"Va bene" disse la donna con voce calma.
"Sedetevi su quel banco e se non capite alzate la mano prima di parlare.
Erano i primi di maggio, ma non festeggiammo la festa del lavoro, l'epidemia si manifestò con tutta la sua violenza e a fine mese i pochi anziani sopravvissuti venimmo chiusi nel paese. Alzarono recinzioni e murarono tutti gli accessi.
Ogni settimana i militari ci portavano i viveri calandoli con una gru; eravamo meno di cento persone rimaste, molte erano al letto attaccati a degli erogatori subacquei che li aiutavano a respirare, l'aria veniva pompata con dei compressori elettrici e stranamente non moriva nessuno. Il virus anche se debole era presente nei nostri corpi.
Ricordo l'ultimo controllo che ci fecero: risultavamo ancora positivi, così il giorno dopo staccarono l'energia elettrica e quelli che necessitavano di aria forzata soffocarono. Restammo in trenta in vita e stranamente man mano che l'aria diventava più calda noi diventavamo più forti e il dieci di luglio capimmo che eravamo guariti, lo dicevano i nostri occhi e l'appetito che avevamo.
Erano due settimane che non ci rifornivano di viveri, ci volevano morti, ma non era un problema perché catturavamo i piccioni o i conigli e nei negozi abbandonati c'era ancora tanta roba da mangiare.
Il ventuno di luglio alle otto e trenta di sera entrarono in paese cinque militari. Io mio marito e mio figlio eravamo in questa chiesa a pregare quando sentimmo delle raffiche di mitra. Avevano sparato al professore. Il professore contento quando aveva visto i militari gli andò incontro dicendogli che con il caldo dell'estate eravamo guariti, ma uno dei militari ridendo gli disse che adesso lo curavano loro e gli scaricò una raffica sul petto.
Il professore poverino cadde indietro, si afflosciò a terra come un sacco vuoto e il suo cervello di rara intelligenza iniziò a deteriorarsi sull'asfalto di piazza Umberto. I cinque militari erano dei giovani esaltati, sul viso avevano disegnate due svastiche come quelle dei nazisti nella seconda guerra mondiale. Avevano un cane per scovarci e massacrarci."
La donna che parlava dalla bocca del vecchio dovette fermarsi, non riuscì a proseguire perché un nodo si formò in gola e il racconto venne ripreso dal marito.
"Quando sentimmo gli spari salii sul campanile e dall'alto potevo vedere senza essere visto, ma avrei preferito non vedere. Mario il meccanico venne preso e fatto mettere in ginocchio, teneva le sue abili mani d'artigiano dietro la nuca, gli disse che eravamo guariti e potevamo tornare alle nostre famiglie perché non c'era pericolo di contagio. Con la promessa che ci avrebbero liberati si fecero dire quante persone c'erano in paese e dove dormivano.
Mario era un genio nel suo lavoro di meccanico ma ingenuo per tutto il resto e appena ebbe finito di fare i nostri nomi e indirizzi, il ragazzo gli tagliò la gola, freddo, senza nessun sentimento, anzi era fiero di quello che aveva fatto.
Un sole purpureo tramontava dietro le montagne del Pettoruto quando gli ultimi anziani vennero trucidati. Noi eravamo gli ultimi perché abitavamo nella parte più bassa del centro storico. Mia moglie Ersilia insieme a mio figlio li aspettavano sul sagrato con in mano il crocefisso alzato recitando il Paternostro, io dall'alto del campanile gli dicevo di scappare ma non mi sentivano, la brezza della sera portava via la mia voce.
Intanto i cinque militari avanzavano nella piazzetta del rione Santa Maria, l'uomo graduato era in testa al corteo e quando fu sotto il campanile sul sagrato lo guardai con il cannocchiale, vidi la sua faccia e anche la fascetta bianca con il suo nome stampato sopra la tasca della giuba.
"Adesso vi diamo la benedizione" disse con un accento veneto. Non erano militari locali, probabilmente i nostri militari li avevano spostati al Nord per fare lo stesso servizio.
Inizio a suonare le campane per distrarli e far scappare mia moglie e mio figlio ma sentii caldo sulla fronte e caddi sotto la campana, un proiettile mi aveva preso.
Lo vedete questo ricamo?" disse ndicando con la mano la cicatrice.
" Mi svegliai la mattina con un forte mal di testa, scesi dal campanile mi affacciai sul sagrato e vidi stesi e abbracciati mia moglie e mio figlio, che quel giorno compiva cinquant'anni."
Dopo un lungo silenzio il figlio prese la parola, rivolgendosi con gentilezza ai ragazzi.
"Mio padre dice che uno di voi può tornare a casa questa sera, lo accompagno io fino al fiume, ma quando arriverà a casa dovrà portare un messaggio.".
A quel punto si fece avanti il padre con tono duro.
"Il messaggio è questo: se vogliono rivedere sani e salvi il resto di voi devono portarmi il sergente che ha trucidato tutte le persone inermi, si chiama Alessandro Giorgini."
Poi fece tirare a sorte chi doveva uscire e fu Salvatore che prese lo stecco più corto; gli altri ragazzi vennero chiusi nella sagrestia sotto la minaccia di una pistola che il vecchio aveva tirato fuori come un prestigiatore tira fuori il coniglio dal cilindro.
Lungo il percorso, fino ad arrivare alle biciclette, il vecchio gli ripeté più volte il messaggio da portare alla polizia locale.
"Digli di non fare i furbi perché altrimenti non troveranno mai i tuoi amici. E non credere che li lascio nella chiesa, non li troveranno mai se mi dovesse capitare qualcosa. Puoi raccontargli, anzi devi raccontare, quello che i militari ci hanno fatto nel mese di luglio del duemila e venti."
Salutò il ragazzo che si allontanava veloce con la sua bici nel buio.
Il vecchio dopo essere risalito dal tombino chiuse la grata bloccandola con un tondino di acciaio e si avviò verso la chiesa cambiando personaggio: adesso era un'anziana signora. Dentro la sagrestia i ragazzi pregavano, impauriti ma non terrorizzati.
"Che state pregando?" chiese la vecchia
"Preghiamo i Santi per farci star bene, farci tornare a casa."
"Non dovete pregare, dovete imitare i Santi, non fatte come tanti bigotti che pregano per avere qualcosa, dovete pregare per avere la forza e il coraggio di dare qualcosa", ma i ragazzi non capirono.
"Venite e statemi vicino: vi porto a cena in un bel locale. Non scappate fareste brutti incontri, la notte molte anime vagano e tante sono cattive, restate vicino a me e non vi toccheranno."
La vecchia si muoveva sicura nel buio. Uscirono dai vicoli ed entrarono in una vecchia pizzeria. La vecchia accese delle lampade ad olio e, anche se poco illuminato, si vedeva bene: c'erano due tavoli e otto sedie ben curate, dietro il bancone c'erano tante bottiglie e in un angolo lo spillatore della birra. Le pareti erano tappezzate di foto autografate di motociclisti famosi. Il locale sembrava una cripta: archi in mattoni rossi con il soffitto a botte, all'origine era la cantina o la stalla di un antico palazzo trasformato in pizzeria negli anni passati.
La donna accese il forno e nel mentre si scaldava fece unire i due tavoli e li apparecchiò con bicchieri e piatti di terra cotta e una caraffa d'acqua di fonte. In meno di mezzora sul tavolo c'erano quattro piccioni e due conigli che aveva riscaldato nel forno.
Parte Seconda
Giuseppe Lento
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