Storie di emigrazioni in Brasile |
Il Brasile dietro l'angolo
Intervista a Paolo Chiaselotti di Ilario Lo Sardo UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA Dipartimento di Sociologia e Scienze Politiche Prof. Vittorio Maria Cappelli Gli insediamenti italiani in Brasile risalgono al XVI secolo quando marinai, religiosi, artisti e soprattutto esuli politici abbandonarono l'Italia per sposare la causa di un paese da poco indipendente come era il Brasile. Tuttavia questa situazione, che perdurò per quasi tre secoli, vide solo sporadici casi di partenze di nostri connazionali. Fu solo nel 1875 che ebbe inizio quell'immigrazione che portò nell'arco di un secolo circa un milione e mezzo di italiani nel paese sudamericano. Essi si misero da subito in buona luce nella vita dello stato, divenendo talvolta i principali attori delle trasformazione che imperversavano nel Brasile del XIX secolo: abolizione della schiavitù, espansione delle terre agricole, consolidamento dell'economia e strutturazione di un nascente settore dell'esportazione oltre che arte, sport e partecipazione politica furono solo alcune delle componenti che attraversarono l'esperienza italiana in Brasile. Talvolta però non fu solo la volontà di libertà politica a spingere molti a lasciare l'Italia, seppur questa rappresentò una delle cause maggioritarie, bensì le cause vanno ricercate in una volontà governativa che era propensa all'attrazione di manodopera europea. Questa poggiava sostanzialmente su fattori semplici quali: l'esigenza di colonizzare un territorio sterminato e a bassissima densità demografica, la necessità di protezione delle aree di confine e la volontà di dare continuità ad un modello di crescita che poggiava sulla coltivazione del caffè. L'arrivo degli immigrati divenne, in questo quadro, un fattore decisivo per raggiungere gli obiettivi governativi soprattutto dopo il 1850 quando, sotto sollecitazione della Corona Inglese, si interruppe la tratta degli schiavi. Questo episodio rappresentò il primo passo verso l'abolizione della schiavitù che verrà decretata nel 1888. D'altro canto la forte spinta verso il Brasile era determinata dalla volontà di ottenere terra gratuitamente o al massimo a basso costo e questo fattore era tenuto ben in conto da quelle immense masse provenienti dal mondo rurale che erano disposte a lasciare il proprio paese. Inoltre, la prospettiva di lavorare in modo dipendente si prospettava la soluzione migliore per migrazioni stagionali che consentissero al lavoratore di risparmiare a sufficienza per acquistare un piccolo appezzamento di terreno una volta ritornato in patria. Forse proprio quest'ultimo era l'obiettivo della stragrande maggioranza di coloro che sbarcavano in Brasile. Si potrebbe anche considerare come indizio l'alta composizione familiare dei flussi che si rivelarono in quelle terre e che furono statisticamente superiori a quelle riscontrate per le altre nazioni protagoniste di flussi migratori consistenti. Il governo brasiliano stimolò oltremodo gli arrivi arrivando anche a pagare i costi di traversata e questo incentivo favorì l'arrivo dei flussi formati da singoli lavoratori sia di famiglie che non potevano permettersi il viaggio per via dei costi. In breve tempo gli italiani divennero i maggiori lavoratori nelle fazendas e ciò permise il mantenimento dell'antico sistema latifondista. In altre parole i fazenderos riuscirono a mantenere i loro metodi produttivi provenienti dall'epoca schiavistica anche dopo l'abolizione di quest'ultima proprio grazie al lavoro degli italiani. Di tutto ciò, ma anche di come vivono oggi la loro situazione di italiani lontani dai luoghi di origine i discendenti di quella massa di lavoratori partiti oltre un secolo e mezzo fa, ne parliamo con il prof. Paolo Chiaselotti, studioso ed appassionato di storia e migrazioni, residente a San Marco Argentano con una storia personale da migrante già di per se particolare. La storia di Chiaselotti nasce in una Trieste non ancora italiana, è caratterizzata da un nonno arruolato nell'esercito asburgico durante la prima guerra mondiale e vede una migrazione in Calabria, a San Marco Argentano, paese materno, in cui ha costruito e vissuto la sua vita ed in cui ha sviluppato la passione per le storie di migrazioni simili alla sua, dedicando ad esse un'intera parte della sua vita. Ma è soprattutto verso il Brasile che Pruvissù (questo il nomignolo assegnatoli dai suoi concittadini) ha sviluppato un amore ed un rapporto particolare, nutrito dallo studio e dal rapporto instaurato con i tanti italiani all'estero. È quindi attraverso le sue parole che vogliamo apprendere le sfumature di una avventura cominciata dai nostri conterranei circa un secolo e mezzo fa, nel tentativo di approfondire quelle conoscenze provenienti dall'immensa letteratura a disposizione che già in modo dettagliato ci raccontano le peripezie di chi lasciava la terra natia alla ricerca di fortuna nelle "Americhe". Caro Professore com'è nato questo lavoro di ricerca sulle migrazioni? A tal proposito la storia e la cultura brasiliana è pregna di personalità di nazionalità italiana che si contraddistinsero nei processi di creazione dello stato, del pensiero e dell'immaginario brasiliano. Fu senza dubbio decisiva la presenza di un numero cospicuo di personalità di spicco sia nel campo dell'arte in quello architettonico; parliamo di architetti, artigiani ed artisti italiani che, supportati da un clima a loro favorevole, potettero dare un cospicuo contributo all'urbanizzazione delle principali città brasiliane 1. Ciò ha seguito processi di ibridazione tra le due culture in cui emerge il forte rapporto con l'Italia che poi sfocia in una fagocitazione che ha nutrito la cultura del paese ospitante. Questo legame si è stretto talmente tanto forte che ancor oggi nell'immaginario del Brasile l'Italia svolge una funzione di primaria importanza negli ambiti più disparati. Sicuramente sia Rubens che Filinto Santoro furono attori protagonisti di questo lungo processo di interazione oltre che costituirono una parte di quella massa di migranti che a cavallo tra il XIX e il XX secolo scelsero, in controtendenza con quelle che erano le scelte migratorie del periodo, di "colonizzare" la parte nord del Brasile. Un territorio amazzonico prevalentemente scelto da cosentini e salernitani che ha in Belém e Manaus i suoi centri principali. Gli appartenenti a questa famiglia di allora contraddistinsero nelle arti visive, nella poesia, nell'architettura e nell'urbanizzazione di fascia medio-alta che la società locale stava costituendo sulla spinta del potere politico e dei rapporti fruttuosi che avevano instaurato. Erano infatti diffuse pratiche che volevano architetti ed artisti strumenti di un'integrazione, spesso guidata dalla massoneria, che faceva dei mezzi di stampa e delle rappresentanze politiche la via sia per l'integrazione della popolazione italiana nei contesti amazzonici sia uno strumento per soddisfare l'oligarchia locale desiderosa di imitare nei luoghi di loro competenza lo sfarzo della belle époque francese. Quindi gli italiani ricoprirono anche un ruolo decisivo nel processo di modernizzazione, soprattutto architettonico, del Brasile. In questo settore il contributo offerto da Filinto Santoro, calabrese nato a Mongrassano, di cui l'intervistato ne è anche parente, fu enorme tanto da costituire nell'immaginario del migrante calabrese un punto di riferimento, incarnando il mito del viaggiatore che si era distinto nelle Americhe e aveva fatto fortuna. A Filinto Santoro sono attribuite la progettazione del Teatro Amazzonas e del Palazzo del Governo di Manaus su commissione del governatore dello Stato dell'Amazzonia, José Ramalho, ma mai costruiti per via di vicende politiche. Oltre a questi, l'architetto realizzò una palazzina per il governatore del Nery, ristrutturato il mercato di Manaus e progettato la Igreja dos Remédios e la Igreja de Sao Sebastiao, due delle cattedrali più importanti dello stato. Tuttavia vicissitudini ancora una volta politiche portarono Filinto a spostarsi da Manaus per Belém, lasciando nella precedente città i fratelli i quali si distinsero anch'essi nel settore amministrativo e i nipoti, uno su tutti diventerà uno dei musicisti brasiliani più conosciuti, Claudio Santoro. La fama di questo fu talmente tanto grande che a lui venne intitolato il teatro nazionale di Brasilia. Nella nuova città Filinto continua la sua attività progettando e costruendo numerose ville per i politici locali e molti edifici pubblici. Tra tutti spiccano il Palacete Montenegro, costruito per il governatore del Parà, Augusto Montenegro, e il Mercado Sao Braz. Inoltre negli anni in cui Santoro soggiorno a Belém divenne talmente tanto importante da ricoprire la carica di console onorario d'Italia. Poté dunque occuparsi della colonia italiana e dei nuovi arrivi da una prospettiva sicuramente di rilievo, oltre che divenire la punta visibile di una popolazione italiana che diveniva progressivamente sempre più elitaria nelle dinamiche brasiliane. Santoro comunque non si accontentò dei risultati ottenuti a Belém e si cimentò, una volta ritrasferitosi a Salvador, nella realizzazione di nuovi edifici pubblici, dando un sostanziale contributo alla modernizzazione architettonica della città. Oltre a questo, gli ottimi rapporti instaurati con i governatori dello stato di Bahia, gli permisero di ricevere nuove commissioni pubbliche che portò a termine prima di ritornare definitivamente in Italia. Se Filinto Santoro rappresentò tutto questo sia per la storia delle migrazioni in Brasile che per i migranti stessi, non da meno fu il fratello Rubens che si distinse come pittore, scultore ed in generale artista a tutto tondo che sia in Brasile, la patria che lo accolse, che in Italia, suo paese di origine, che in Francia e Russia, grazie alla regina Margherita di Savoia e allo Zar Nicola II, si distinse talmente tanto da divenire punto di riferimento ed esempio per coloro i quali decidevano di lasciare i luoghi natii per cercare fortuna lontano da casa. Più in generale, in Brasile, si distinse tutta la famiglia Santoro che, oltre ai già citati e più famosi Rubens, Filinto e Claudio, vide la partecipazione attiva nei processi di formazione culturale ed amministrativa dello stato di altri componenti della famiglia quali Attilio e Giotto. Soprattutto quest'ultimo sarà ricordato come amministratore del porto di Manaus. Perché l'interesse proprio verso il Brasile? E cosa ha riscontrato? La risposta data da Chiaselotti ci è utile come punto di partenza per affrontare differenti tematiche. Innanzitutto il quindicennio a cavallo tra il 1887 e il 1902 vide il maggior numero di persone lasciare l'Italia per raggiungere le Americhe. In effetti nell'immaginario comune raggiungere "le Americhe" divenne sinonimo di Brasile poiché questa incarnava in modo perfetto il mito della terra promessa in cui era possibile arricchirsi facilmente essendo nel territorio d'oltreoceano, tanto che si sviluppò ben presto l'idea che il Brasile potesse divenire una "più grande Italia" cioè un territorio in cui poter rendere reale il progetto di espansione territoriale pacifistica che voleva nuove terre sotto l'influenza geopolitica italiana. Tuttavia ben presto, seppure vi erano stati casi di personalità che avevano fatto fortuna, si capì che la situazione era ben diversa, soprattutto la condizione degli italiani che vennero equiparati a "schiavi bianchi" da far lavorare delle fazendas. Di conseguenza solo un risicato numero di soggetti partiti riuscì a migliorare le proprie condizioni di vita. Per altri, soprattutto quelli della fascia più rurale, le condizioni non erano migliorate di molto ed anzi peggiorarono nei primi del '900 quando una crisi di sovrapproduzione di caffè ne determinò un ulteriore inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro. Si dovrà aspettare la fine della seconda guerra mondiale per registrare un leggero miglioramento delle condizioni. In ogni caso, ad una prima ondata di migrazione di carattere politico, artistico ed artigianale, già nel 1915 si registrò una netta prevalenza di arrivi in cui la maggioranza di persone proveniva da un ambiente rurale ed era alla ricerca di condizioni di lavoro pressappoco simili, seppur meglio remunerate, di quelle che avevano in Italia. A queste dobbiamo aggiungere un alto numero di nuclei familiari con tassi di alfabetizzazione ancora bassissimi. A livello di arrivi le regioni settentrionali e quelle meridionali si equivalsero seppur furono soprattutto i cittadini veneti a decidere per primi ed in modo più consistente ad emigrare per il Brasile. A questi verso la fine del XIX secolo si aggiunsero un cospicuo numero di campani, abruzzesi e calabresi. Non va nemmeno dimenticata la Lombardia che nell'arco di tutto l'800 fornì persone in un numero così elevato da collocarsi statisticamente al quarto posto per numero di arrivi in Brasile. A questa massa di lavoratori si aggiunse nei decenni successivi una serie di rifugiati che scappavano dall'Italia per via della persecuzione politica e delle leggi razziali fasciste. Facendo un passo indietro possiamo considerare come fu negli ultimi quarant'anni dell'Ottocento che si registrò un flusso costante e rilevante di nuclei coloniali che arrivano in Brasile. Di norma la zona di riferimento, se si escludono le grandi città, erano quelle meridionali del Rio Grande do Sul, di Santa Caterina e Paranà dove le condizioni climatiche e colturali erano molto simili a quelle europee e quindi si potevano avviare coltivazioni con le proprie conoscenze. Di conseguenza chi arrivava in queste zone riceveva una casa provvisoria, sussidi alimentari, attrezzi e sementi da rimborsare nel futuro mentre, nelle colonie governative, gli uomini venivano impiegati nei lavori pubblici per fargli ottenere un primo stipendio di sostegno. La famiglia, inoltre, si assumeva l'obbligo di disboscare una parte del lotto assegnatogli, preparare il terreno per le coltivazioni, seminare, costruire la propria abitazione e delimitare i confini della proprietà assegnatogli. Si deve tener conto anche delle difficoltà che si incontravano e che venivano prontamente affrontate dai nostri connazionali che avevano trovato un luogo in cui l'economia di sussistenza da loro da sempre praticata dava risultati migliori che in Italia. Ciò avveniva per l'ampiezza dei fondi, per la diversificazione della dieta e per la diminuzione di preoccupazioni per il futuro. Questi fattori, uniti tra di loro, diedero agli immigrati brasiliani una sensazione di miglioramento delle condizioni di vita rispetto a quelle lasciate nella patria. In più, l'isolamento e l'univocità di provenienza consentirono il mantenimento di aspetti culturali prettamente tipici del paese di provenienza: tradizioni, usi, costumi e persino la lingua o meglio i dialetti. Tuttavia solo una piccola parte di italiani riuscì a coronare il sogno di acquisire un appezzamento di terra. Per la grande maggioranza la situazione fu diversa poiché vi era grande richiesta di lavoro nelle fazendas. In quest'ultime l'organizzazione del lavoro rendeva altamente improbabile la diffusione dei risparmi poiché la remunerazione familiare era solo parzialmente monetaria mentre un'altra parte era costituita dalla concessione di un'abitazione e dal permesso di allevare animali. Oltre a questo, i salari risultavano quasi sempre inferiori a quelli pattuiti con il proprietario del latifondo e le erogazioni di contante erano minime. Inoltre, visto l'isolamento che spesso queste comunità vivevano, era impossibile vendere la merce prodotta; di conseguenza si finiva per vendere quello che si produceva al fazendeiro che praticava prezzi inferiori a quelli corretti detraendo somme di potenziale denaro agli immigrati. Si può quindi notare come il mondo di chi trovava occupazione in queste era fatto di segregazione, violenza e molestie e risultavano pressappoco assenti l'assistenza sanitaria, l'istruzione come pure la componente religiosa. Di conseguenza il risparmio era legato all'aumento di lavoro del nucleo familiare. Inoltre i fazenderos erano molto abili ed accorti a mettere in pratica azioni di isolamento che impedivano il formarsi di rivolte. A tal proposito era anche solito assumere persone che non avessero legami né religiosi, né culturali, né geografici comuni in modo che le forme di resistenza che potevano venirsi a creare si strutturassero come episodi individuali e non collettivi. A fronte delle enormi difficoltà che presentava questo tipo di vita il tasso di rimpatri fu estremamente elevato e l'emigrazione italiana verso le fazendas diminuì drasticamente fino a scomparire negli anni '30 a seguito della crisi economica. In effetti, le enormi difficoltà incontrate nell'organizzazione del lavoro nelle piantagioni fece in modo che il governo brasiliano elaborasse pratiche di attrazione a questa tipologia di lavoro che però raggiunsero scarsi risultati. Di contro, una gran parte degli ex lavoratori delle fazendas preferirono spostarsi nelle aree urbane del paese. Questa era anche una destinazione primaria da parte di alcune tipologie di immigrati che vedevano nella nascente urbanizzazione brasiliana una fonte di guadagno. Di conseguenza gli italiani contribuirono enormemente allo sviluppo demografico delle città, soprattutto nell'area limitrofa alla capitale. Ciò si radicò talmente tanto che São Paulo assunse in breve tempo l'immagine di "città italiana" con interi quartieri abitati da nostri connazionali. In città gli italiani andarono ad occupare spazi di lavoro che offrivano ancora uno spettro occupazionale abbastanza ampio, riempiendo spazi ancora vuoti. Il numero più consistente si diede all'edilizia ma non mancavano esercenti commerciali ed artigiani che vivevano di una clientela formata da connazionali. Minore, invece, la partecipazione al commercio di ampie dimensioni pur se vi erano casi di importazioni di prodotti italiani. Quasi del tutto assenti i liberi professionisti se non per quanto riguarda artisti e medici. L'aspetto abitativo, trattato in precedenza per la vita rurale, era enormemente differente in città dove si viveva nei famosi cortiços, enormi spazi abitativi comuni. Tuttavia, con il passare del tempo le soluzioni abitative andarono diversificandosi e ogni migrante cominciò a costruire, con l'aiuto dei connazionali, la propria abitazione. Molte volte le abitazioni (come ci verrà spiegato in seguito anche dall'intervistato) riproducevano i modelli architettonici delle zone di provenienza tanto che, ed è ancora visibile oggi, alcuni tratti urbanizzati riproducono fedelmente paesaggi molto simili ai nostri. I principali residenti di queste zone erano i lavoratori delle fabbriche di cui gli immigrati italiani ne costituivano più del 60% del totale dei lavoratori. L'arretratezza dell'industria brasiliana consentì con facilità l'assorbimento sia della manodopera rurale che fuggiva dalla difficile situazione delle fazendas sia di quella di nuova immigrazione che sceglieva di fermarsi direttamente in città. Di tutti questi lavoratori solo una piccola parte riuscì a conquistarsi una posizione di rilievo nella struttura brasiliana mentre la maggior parte ebbe una grossa delusione dall'avventura scelta. Molti di questi acquisirono capacità artigiane una volta arrivati in Brasile frequentando laboratori artigiani di parenti e paesani pur se vi è da considerare una forte propensione al lavoro dipendente che non a quello legato all'imprenditoria. In tutti i casi la finalità di questa migrazione rimaneva l'invio di rimesse nel paese d'origine. Anche da questo si può comprendere come la migrazione venisse affrontata con un'intenzione stagionale. Al di là di quello che ci dice la storia sulle migrazioni in Brasile, lei, dal lavoro che ha svolto, che idea si è fatto? In altre parole, perché si emigrava da San Marco Argentano e dai paesi vicini per andare in Brasile? Le parole di Chiaselotti, oltre che nei dati da lui stesso raccolti, trovano conferma nella letteratura che descrive i rapporti tra il Regno di Napoli e l'Impero del Brasile2. I rapporti che politici tra i due regni sono infatti documentati sia in recenti ricerche che in testi minori che pur offrono notevoli spunti di riflessione su come il pubblico napoletano guardava agli intensi mutamenti sociali che avvenivano in Brasile nell'Ottocento. Si tratta di una serie di scritti di diversa natura, dai rapporti ai fogli di viaggio, e destinati agli usi più disparati che in ogni caso consentono di ricomporre minuziosamente le vicende in essere. Le parole dell'intervistato dicono chiaramente come vi intercorressero già forti rapporti tra i Borboni e la dinastia Bragança, cioè la famiglia di Pedro II, così come sono noti i tentativi di Ferdinando I di rafforzare la presenza politica napoletana nei territori oltreoceano e soprattutto in Brasile. Già nel 1826, quando il Brasile dichiarò la propria indipendenza dal Portogallo, i regnanti di Napoli aveva intuito le enormi potenzialità che offriva quel territorio in termini di allargamento dei mercati tanto che, nel 1827, la corte borbonica assegno all'allora console negli Stati Uniti, conte Ferdinando Lucchesi Palli di Campofranco, il compito di intrattenere rapporti d'affari con Rio de Janeiro per conto del Re di Napoli. Al fine di svolgere il proprio ruolo, il console preparò anche un incartamento dal titolo "Rapporto Storico-geografico-politico sull'Impero del Brasile"3, che prevedeva al suo una "Tavola sinottica riguardante gli oggetti su' quali debbono raggirarsi i rapporti de' commissionati a viaggiare presso l'estero", che costituisce una singolare visione napoletana del Brasile agli inizi dell'Ottocento elaborata sulla base di motivazioni economiche. Tale manoscritto, come tanti presenti dello stesso tipo, doveva costituire una prassi comune dei diplomatici che avevano il compito di strutturare una "tavola sinottica" in cui descrivere: lo stato dell'agricoltura, i mezzi economici e finanziari, le scoperte agricole, lo stato del commercio e dell'urbanizzazione oltre preparare le tariffe doganali appropriate. L'attenzione meticolosa con cui la corte pretendeva tali relazioni costituisce un segno inequivocabile dell'attenzione con cui i Borboni guardavano a questo territorio ancora da scoprire. Il testo sopra citato si segnala invece come una prima visione, un approccio critico alla sconosciuta realtà brasiliana. Altra testimonianza rilevante in tal senso è quella che proviene dagli scritti di Gennaro Merolla, console generale del Regno delle due Sicilie a Rio fra il 1832 e il 1834. Merolla nel suo carteggio comunica le preoccupazioni per il diffondersi delle idee rivoluzionarie che prendevano sempre più piede, sforzandosi a delineare i tratti di un paese le cui prospettive sono molto diverse di quelle che si figuravano in Europa. Inoltre, lo stesso dedica una cospicua attenzione a quella che definisce "la classe più popolosa del Brasile" riferendosi agli schiavi neri. È lo stesso console che criticando le scelte del governo brasiliano in relazione alla schiavitù dice: "Più di quarantamila di questi Africani erano immessi nel Brasile annualmente... L'abolizione della tratta dei Negri non impedisce che lo stesso numero circa s'immette nel Brasile in contrabbando in ogni anno, e questo nasce che le Autorità Brasiliane sono di accordo con gli speculatori". Questa è chiaramente una condanna alla schiavitù e ai metodi inglesi accusati di falsa filantropia e che mirano all'abolizione della schiavitù per meglio riuscire a controllare i territori del nuovo mondo. Di tutt'altro conto uno scritto fino ad oggi inedito dal titolo "Memoria sul Commercio dei Neri, e sui mali che dallo stesso ne derivano" che mostra come la schiavitù abbia ripercussioni sull'ordine pubblico in quanto «l'aumento di schiavi, ed i maltrattamenti, la crudeltà, compromettono continuamente la sicurezza pubblica» e sono un vero e proprio disastro per lo sviluppo della società poiché «non potranno giammai far progressi le arti liberali, e meccaniche nel Brasile, mentre vi esiste la schiavitù». Tuttavia non è ben chiaro il perché tale testo non fu mai diffuso. Indizi portano a pensare che la mancata pubblicazione risiedesse una mossa politica derivante dalle opportunità che si poteva venire a creare visto che Dom Pedro II aveva iniziato nel 1840 le trattative per la scelta della futura imperatrice del Brasile. La scelta, non a caso, ricadde su Teresa Cristina Maria di Borbone. Ne è testimonianza lo stesso testo di Merolla in cui è palesato l'interesse della famiglia Borbone verso il Brasile e che vede nel lavoro stesso del console un esempio di perfetta apertura tra i due paesi. Di certo il matrimonio tra Dom Pedro II e Teresa Cristina prima e quello tra il conte Luigi d'Aquila e la sorella di Dom Pedro, Gennara Maria di Braganza, fece aumentare l'attenzione verso il Brasile. È anche di questo decennio il primo "manuale degli emigrati" scritto da Gaetano Valeriani e dal titolo "Cenno Storico-Fisico-Politico dell'Impero del Brasile"4 in cui sono riportate notizie sommarie sulla storia e sulle realtà locali del Brasile. Libri del genere si diffusero in tutto il sud Italia nell'ultimo quarto del secolo. Porgendo l'attenzione al testo citato dal prof. Paolo Chiaselotti si può considerare come oggi esista una notevole letteratura legata al matrimonio dell'imperatore del Brasile e che oltre a questi vi sia una notevole serie di testi a carattere referenziale scritti dagli stessi membri dell'equipaggio che accompagnarono l'imperatrice nel suo viaggio oltreoceano. Seppur questi trattino per lo più la navigazione e la tratta degli schiavi, non vi è da escludere che la figura del comandante del vascello "Vesuvio", Eugenio Rodriguez, su cui viaggiò l'imperatrice, fosse talmente importante ed il suo testo talmente tanto completo d'esser divenuto uno dei mezzi di promozione della migrazione in Brasile utilizzati dalla corona borbonica. Seppur tali considerazioni trovano innumerevoli riscontri negli scritti che testimoniano l'interesse e la volontà di controllo dell'aria non si hanno prove certe che le intenzioni fossero proprie queste. Di sicuro si può affermare che, anche dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie e con l'Unità d'Italia, la crescente tensione intellettuale che si era creata negli anni precedenti verso il Brasile non andò comunque perduta poiché costituì la base per la conoscenza di quei territori addirittura anche nel Novecento. Se invece si vogliono capire le cause storicamente date che dettero avvio alla migrazione in Brasile queste vanno ricercate in quelle motivazioni molto più ampie che stanno alla base della "grande migrazione" del 1800. Innanzitutto è utile specificare come alla base di tale scelta vi fu la rivoluzione dei trasporti che consentì l'affermazione della migrazione transoceanica. Sulla scia di questo fattore, i decenni successivi all'unità d'Italia videro i movimenti migratori non solo intensificarsi ma anche coinvolgere nuovi protagonisti aprendo la via verso una nuova riscoperta dell'America come meta di destinazione. La portata demografica di tale migrazione fu talmente tanto grande da porre all'oscuro gli altri movimenti migratori che avevano visto il nostro paese protagonista. E ciò succedeva in un clima in cui si contrapponevano due scuole di pensiero che accusavano, da un lato, gli emigranti di inseguire sogni folli di facile ricchezza, abbandonando il poco che avevano per affrontare un viaggio lungo e pericoloso, mentre dall'altro si incolpavano le partenze d'essere la causa principale della disgregazione della famiglia, dell'abbandono della pratica religiosa e della diffusione di malattie. Tuttavia le condizioni di miseria e la sovrappopolazione delle nostre campagne, indicate da sempre come le principali cause che spinsero alla migrazione, sembrano, in un'ottica del tutto nuova, motivazioni troppo semplicistiche ed ovvie per far si che furono in grado di avviare il processo migratorio. Già dall'antichità tutta la nostra penisola era protagonista di circuiti stagionali di migrazione, non esisteva un angolo di penisola che ne fosse estranea, a testimonianza che il fenomeno in questione non era un avvenimento nuovo per l'epoca; tuttavia a questi si aggiunse una crescita demografica sproporzionata che raggiunse il suo apice nel XIX secolo. In altre parole si produsse un'eccedenza cronica di manodopera che non trovava occupazione in Italia. Le condizioni peggiorarono con la nascita dello stato italiano a causa dell'usurpazione dei beni comunali e demaniali che posero la popolazione rurale nella condizione di non poter usufruire di alcune risorse del territorio di ci era tradizionalmente beneficiaria; a questo si aggiunse la soppressione di alcuni sostegni assistenziali e l'obbligo del servizio militare che venne percepito, dalle famiglie contadine, come un'inutile sottrazione di lavoro. In più, le logiche capitalistiche, avevano determinato una restrizione dei circuiti artigianali e di industria rurale e negli anni settanta vi fu anche una crisi agraria. Questa miscela di cause determinarono la scelta a migrare da parte di ampie fasce della popolazione nel tentativo di dilatare il territorio di riferimento della propria attività per far fonte al calo della domanda. In più il Brasile sembrava incarnare nell'immaginario collettivo delle popolazioni rurali il mito del sogno americano per cui vi erano aspettative altissime di riscatto sociale. La credenza era quella che con il lavoro, la dedizione, lo spirito di sacrificio e le capacità imprenditoriali si sarebbero potuti raggiungere posizioni di vertice indipendentemente dal livello di partenza. Naturalmente tale paradigma risultava molto distante da una realtà in cui, solo grazie ad un processo di mobilità, chi viveva in città riusciva a svolgere una vita non particolarmente agiata ma senza preoccupazioni. Inoltre, le politiche di agevolazione alla circolazione della manodopera internazionale sfociarono ben presto in un liberalismo migratorio di cui buona parte degli stati sud americani erano sostenitori. Fu così che nel 1884 il Brasile emanò due leggi che garantivano il trasporto gratuito degli emigranti andando a coprire i costi della traversata oceanica. Pur se le aspettative di chi migrava erano errate il bisogno di manodopera era talmente tanto elevato sia nel settore agricolo che in quello edilizio che era pressappoco impossibile non trovare occupazione in uno dei cantieri o nelle fazendas. E cosa si trovava davanti chi migrava in quel periodo? Che difficoltà incontrava? Come già espresso nell'intervista, i flussi migratori verso il Brasile cominciarono dopo la legge del 1888 che aboliva la schiavitù, pur se il picco si ebbe tra il 1891 e il 1900 tanto da andare a costituire il 42% del totale dei migranti partiti dall'Italia. A livello nazionale il caso brasiliano è un caso del tutto particolare poiché la componente regionale assume una valenza importante. L'emigrazione familiare era una forma tipica di migrazione del nord Italia, che si diresse verso le zone agricole mentre, mentre la partenza dei soli maschi era tipica delle regioni meridionali, che si diressero prevalentemente verso le città. È così che in Brasile sono rappresentate tutte le aree geografiche italiane e vi è una certa omogeneità nelle rappresentanze. Se in una prima fa a dominare furono le partenze dal Veneto e dal Friuli con le regioni del sud che contribuivano in modo minore, in un secondo momento le percentuali si sono rovesciate equilibrando le presenze. Per quel che riguarda la tipologia di personalità che partirono, si devono considerare i commercianti, gli artigiani e gli addetti all'edilizia come le categorie più rappresentate nelle migrazioni, oltre che all'enorme massa di lavoratori stagionali. È proprio il carattere circolare della migrazione, soprattutto per le persone che provenivano dal sud Italia, a costituire una caratteristica fondante della migrazione italiana in Brasile. Effettivamente fin dall'antichità soprattutto le popolazioni meridionali erano soventi attuare questo tipo di migrazioni che seguivano i cicli produttivi nei campi, nei cantieri e nelle fabbriche. Questa sorta di "rito" diviene una caratteristica anche della migrazione brasiliana pur se i tempi di assenze in questi casi aumentarono. L'assenza maschile si riflesse così anche nell'organizzazione sociale e le donne assunsero un ruolo di supplenza nei compiti da svolgere nei paesi d'origine. Ciò si evidenzia nella presenza nelle transazioni immobiliari e familiari, nelle cerimonie pubbliche e talvolta anche nei ruoli istituzionali. Ma a spiccare su tutti vi è soprattutto una predominanza nella gestione delle risorse finanziarie, talvolta pervenute come rimesse, e dell'accesso al credito, che le erano conferite come delle molte funzioni lasciate vacanti dai mariti assenti, che hanno confermato gli effetti pervasivi di uno stile di vita basato sul periodico allontanamento della parte maschile della popolazione. Si cominciò così a riscontrare un aumento del lavoro femminile e minorile che andò a sostituire quello degli uomini. È utile specificare come lo scopo della partenza stagionale era quella di guadagnare un reddito aggiuntivo da poter utilizzare nei luoghi d'origine; in altre parole diveniva il luogo in cui i proventi derivanti dal lavoro svolto erano utilizzati per raggiungere gli obiettivi d mobilità sociale. Le conseguenze delle migrazioni maschili si fecero inoltre sentire anche sull'andamento demografico della comunità, con particolare riguardo alle variazioni stagionali delle nascite. Si parla di matrimoni e nascite che si addensavano o meno in alcuni periodi dell'anno, come anche di fenomeni di espansione e contrazione demografica utili ad individuare i lassi di tempo e le forme stagionali di migrazione oltre che a determinare l'esodo definitivo. Un ulteriore effetto di questa femminilizzazione della società fu quello del miglioramento delle condizioni abitative e d'istruzione. E pur se l'istruzione era uno degli obiettivi del nascente stato italiano, i risultati ottenuti erano ancora bassi per via della frequentazione stagionale che i bambini avevano a scuola che dipendeva in larga parte dal lavoro nei campi. L'emigrazione in qualche modo incentivò l'istruzione pur se la Calabria si attestava sempre agli ultimi posti con la più alta percentuale di analfabetismo. Tuttavia, tra la dilatazione delle rotte migratorie, la trasformazione della tipologia di lavoro richiesto, l'estensione della migrazione legata ai vari mestieri dell'edilizia e l'enorme capacità di assorbimento dello stesso settore edile, vi fu un passaggio da uno schema migratorio stagionale ad uno scandito dai ritmi delle esigenze di lavoro, fin quando, per alcuni gruppi, la migrazione diveniva definitiva. Di conseguenza il ritorno non avveniva più a fine stagione bensì a fine lavoro. Delle condizioni di lavoro se n'è parlato in precedenza mentre non si è trattato delle condizioni di viaggio. Nonostante il XIX secolo vide la nascita di numerose invenzioni che fecero diminuire drasticamente le distanze, fino al 1870 il viaggio verso in Brasile era realizzato con imbarcazioni a vela e i principali porti di attracco, di un viaggio che poteva durare fino a 60 giorni, erano quelli di Rio de Janeiro e Santos. Con l'avvento della navigazione a vapore i tempi si ridussero a 20/30 giorni e le enormi navi riuscivano a trasportare più di mille passeggeri che rappresentava un terzo della loro capacità di carico; con il risultato che molti viaggiavano stipati in terza classe, "distesi sottocoperta su cuccette accatastate o direttamente sull'impiantito"5. Gli scompartimenti erano piccoli e molto sporchi, il cibo scarso e spesso avariato e l'acqua potabile scarseggiante. Alle condizioni igieniche pessime si aggiungevano poi le non meno importanti condizioni climatiche; continue escursioni termiche tra giorno e notte erano la norma durante la traversata. Tutto ciò si traduceva in una costante diffusione di malattie infettive come il colera ed il vaiolo che spesso si trasformavano in epidemie. Esempi di ciò ve ne sono moltissimi. Nel 1889 morirono 52 persone di fame e 24 per asfissia su tre piroscafi italiani in rotta verso il Brasile. Se queste erano le condizioni in cui veniva affrontato il viaggio, la "tonnellata umana"6, analfabeta, veniva subito schedata al suo arrivo e ad ogni persona veniva rilasciato un passaporto che, quasi sempre, era il famigerato "passaporto rosso" che inquadrava l'immigrato nella categoria della manovalanza. Questi spesso, fin dal loro paese di origine, venivano arruolati dagli agenti e dai sub-agenti di emigrazione che giravano i paesi alla ricerca di persone disponibili a lasciare i loro luoghi di origine. Queste difficoltà rappresentavano tuttavia solo la prima parte della loro avventura che, anche in territorio ospite, non era priva di difficoltà. Ed invece sulle tradizioni e la partecipazione dei nostri connazionali alla vita in Brasile cosa ci può dire? L'isolamento di larghe parti della popolazione favorì in buona misura al mantenimento dell'identità d'origine e pur se gli italiani si inserirono senza difficoltà nel tessuto sociale brasiliano, il fattore etnico spinse gli immigrati ad acquisire un senso comune di appartenenza più forte che in patria. Nonostante la già chiara identificazione nazionalistica, il regionalismo sopravvisse e le manifestazioni legato a questo fattore furono un chiaro esempio di mantenimento degli usi originali. Non era solo i dialetti a costituirne una componente, ma anche le feste paesane e religiose e la proliferazione di strutture associative. Alla base del successo di quest'ultime vi era la dispersione territoriale degli immigrati che portarono, in ogni località in cui vivevano degli italiani, alla nascita di uno o più associazioni. Ciò avveniva poiché il Brasile viveva gravi problemi sul piano legislativo per quanto riguarda l'assistenza pubblica e la previdenza sociale e quindi strutture associative come quelle sopracitate permettevano di sopperire alle carenze statali. Proliferarono anche le scuole elementari pur se scarso fu il numero delle scuole medie, a testimonianza della scarsa attenzione che si rivolgeva all'istruzione. Conseguenza diretta dell'abbondanza delle scuole e delle associazioni fu la pubblicazione di giornali. Si tratta di quotidiani, settimanali, quindicinali, mensili e numeri unici che trattavano gli argomenti più disparati legati al mondo degli italiani in Brasile. Le tirature erano piuttosto limitate e spesso le testate restavano in vita per meno di un anno, pur se non mancano esempi di quotidiani che raggiunsero un successo notevole. Gli immigrati sentiva fortemente il richiamo sentimentale della patria lontana ed era interessato ad avere notizie sell'Italia, ma che gli stessi italiani in Brasile erano desiderosi di conoscere la sorte dei loro connazionali che si trovavano nelle altre colonie. La stampa assunse così il fondamentale impegno di sostenere e rappresentare la nutrita comunità italiana, facendosi portatore di quel fattore di preservazione della cosiddetta italianità. Ben presto i giornali si trasformarono in fogli di propaganda politica e, laddove vie era una comunità italiana, si sviluppò un forte sentimento di partecipazione attiva alla vita del paese che spingeva le masse a cercar di farsi protagonisti dei cambiamenti sociali che intervenivano. Sicuramente la testata che ebbe maggior successo in tal senso fu la "Fanfulla" che divenne in breve tempo in quotidiano in lingua italiana più autorevole e diffuso del paese. Questo, oltretutto, si distinse nella lotta alla discriminazione e pregiudizi contro la comunità italiana e si impegnò nel mantenimento della cultura italiana. Il carattere politico del giornalismo in questione fiorì soprattutto in quelle frange operaie e sovversive che animarono la partecipazione sindacale dei lavoratori italo - brasiliani, contribuendo alla formazione di una coscienza e di un movimento operaio attento alle questioni legate al mondo del lavoro. Inoltre, questa stimolò l'attenzione dei giornali locali verso le problematiche sociali. Si può così dire come l'informazione ebbe un ruolo decisivo nella formazione dell'italiano in Brasile. A questa fu infatti attribuito il compito di formare una massa di immigrati che nemmeno aveva una lingua comune, pur se costituiva una comunità coesa, condivideva i valori nazionali e si sentiva italiana nella cultura e nei sentimenti che nutriva verso la madrepatria. In altre parole, la stampa etnica rappresentò l'anello di congiunzione tra due realtà: quella nuova che spesso tendeva ad escluderli e quella vecchia che si erano lasciati alle spalle e per cui nutrivano sentimenti contrastanti. Le associazioni italiane furono spesso teatro di divisioni tra anarchici e repubblicani, conservatori e progressisti, clericali e laici. La politica divenne un mezzo di inclusione sociale e di distinzione in una società caratterizzata da un forte multiculturalismo. Il continuo scambio d'esperienze, valori e conoscenze tra italiani e brasiliani è testimoniato da cronache che ci mostrano come alla fin fine i due popoli condividevano destini comuni nonostante la diversa etnia. Inoltre, il grande numero di immigrati e loro discendenti rendeva inevitabile il coinvolgimento sia nella vita politica che in quella sindacale ed in ogni caso legata alle organizzazioni industriali o commerciali in cui gli italiani erano presenti. Il Brasile rappresentava a volte il luogo in cui esprimere senza problemi le idee politiche che in patria non erano condivise. Il mescolamento risultò più agevole nei centri urbani che nelle fazendas pur se i tratti della cultura di origine si mantennero forti. Anche oggi è possibile ammirare tratti dell'italianità nella vita quotidiana; si parla, per esempio, della tradizione culinaria e dell'affermazione delle feste religiose in cui si ritrovano spesso tratti di eterogeneità etnica. Nel processo di affermazione di un'identità italiana si impose il culto della Madonna Acheropita che è un perfetto esempio di antropofagia in cui la cultura straniera viene assimilata e digerita come fosse propria, determinandone un prodotto finale inedito e del tutto brasiliano. Conclusioni Alla fine di questa intervista non rimane che chiedere a Chiaselotti: Oggi qual è il suo oggetto di ricerca? Gli italiani che emigrarono all'estero durante la grande migrazione avrebbero potuto e dovuto segnalare, secondo le norme vigenti all'epoca, alle autorità consolari i loro matrimoni e la nascita dei loro figli. In Brasile ed in Argentina queste segnalazioni non vennero quasi mai fatte spesso a causa della lontananza del più vicino consolato, spesso perché i padri o non conoscevano il diritto o non erano interessati a regolarizzare la posizione dei figli. Queste omissioni hanno reso il lavoro di Chiaselotti, e di tanti come lui, sicuramente più difficile. Negli ultimi quattro decenni, il peggioramento delle condizioni di vita nei paesi del Sud America legate a problematiche politiche ed economiche hanno dato avvio ad una vera e propria corsa alla cittadinanza italiana che vede nella "scoperta" della propria di discendenza il primo gradino per averne diritto. La possibilità di acquisire la cittadinanza italiana in questi anni ha assunto una valenza del tutto particolare poiché è un lasciapassare per l'Europa e gli Stati Uniti, in cui i cittadini italiani godono di enormi benefici. Questo ha permesso, nel caso specifico, di poter accedere ad un'enorme mole di dati a disposizione spinti proprio dalla volontà dei discendenti dei migranti di capir bene la loro origine. A tal proposito basta pensare come dal 2002 siano state ben 13283 nuove cittadinanza per un totale di 148204 passaporti rilasciati ad oriundi brasiliani. A chiudere non rimane che fare una breve considerazione sulla natura ed i cambiamenti che sono intervenuti tra le migrazioni terminate ad inizio XX secolo e quelle contemporanee. Innanzitutto il primo elemento di distinzione sta nelle dimensioni quantitative totali che risultano assai più contenute; il dopoguerra ha determinato un cambiamento nelle preferenze migratorie verso nuove destinazioni escludendo il Brasile. A queste vanno aggiunte le caratteristiche dei nuovi migranti sia a livello di scolarizzazione che di composizione per sesso. La presenza in territorio straniero di cittadini italiani è oggi legata a un'internazionalizzazione dell'economia che porta lavoratori di tutto il mondo a spostarsi facilmente e soprattutto in America Latina. Differente è anche la politica dei ricongiungimenti familiari che tiene conto dell'accresciuta presenza femminile nei flussi; così come la maggiore disponibilità degli italiani a partecipare attivamente alla politica degli stati che li accolgono e la facilità con cui i viaggi, grazie al progresso, sono affrontati. Se consideriamo questi fattori alla luce anche delle considerazioni che vogliono un'inversione degli antichi flussi, le enormi richieste di cittadinanza italiana, si può ben capire come i rapporti migratori che intercorrono tra Italia e Brasile si siano negli ultimi decenni radicalmente modificati. NOTE 1 Cappelli V. - Hecker A. a cura di, Italiani in Brasile. Rotte migratorie e percorsi culturali, Rubbettino, 2010 (Cappelli V., La presenza italiana in Amazzonia e nel Nord est del Brasile tra Otto e Novecento) 2 Avello N., Contributi Napoletani alla Storia della Cultura Brasiliana nel XIX secolo 3 Manoscritto inedito conservato nell'archivio di stato di Napoli 4 Valeriani G., Cenno Storico-Fisico-Politico dell'Impero del Brasile 5 A. Trento, Là dov'è la raccolta del caffè. L'emigrazione italiana in Brasile: 1875 - 1940, Padova, Antenore, 1984 6 Il modo in cui veniva chiamata la massa di persone che si imbarcava. Bibliografia Audenito P., Tirabassi M., Migrazioni Italiane, Bruno Mondadori, 2008 Colucci M., Sanfilippo M., Le Migrazioni, Carrocci ed. 2009 a cura di Cappelli V., Hecker A., Italiani in Brasile. Rotte migratorie e percorsi culturali, Rubbettino, 2010 a cura di P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Nelle altre Americhe, in Storia dell'emigrazione italiana. Arrivi, Donzelli, 2002 A. Trento, Là dov'è la raccolta del caffè. L'emigrazione italiana in Brasile: 1875 - 1940, Padova, Antenore, 1984 Valeriani G., Cenno Storico-Fisico-Politico dell'Impero del Brasile Avello N., Contributi Napoletani alla Storia della Cultura Brasiliana nel XIX secolo |