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ROBERTO IL GUISCARDO E I SUOI PREDONI Nel suo "DE REBUS GESTIS ROGERII CALABRIAE ET SICILIAE COMITIS ET ROBERTI GUISCARDI DUCIS FRATRIS EIUS" il Malaterra dedica quasi un intero capitolo, il sedicesimo, ad un'impresa che oggi rientra tra i reati contro il patrimonio: il furto. Chi ne fu vittima? un'intera comunità. Chi furono gli esecutori? Un nutrito manipolo di mercenari. Chi fu il mandante: Roberto il Guiscardo. In estrema sintesi è questo il quadro che il racconto del Malaterra ci offre, ma il cronista si sofferma su alcuni particolari che rendono l'azione compiuta, i suoi protagonisti, le vittime e l'esito finale di un interesse tale che non esito a definirli una pagina unica della storia medievale. Questa pagina ci riguarda da vicino, essendo San Marco il luogo da cui ha origine l'intera vicenda, dalla quale i mentori locali del condottiero normanno potranno trarre nuova linfa per l'esaltazione dell'antico castrum e del suo fondatore. Nell'esporre l'argomento seguirò pedissequamente il racconto del biografo, il quale, non dimentichiamolo, era un religioso obbediente alla regola di San Benedetto, ma anche un aperto sostenitore del conte Ruggero e del duca Roberto. Qual è il motivo che spinge Roberto a compiere il reato in premessa, cioè sottrarre beni altrui? La fame! Al contrario, però, delle razzie narrate da Amato di Montecassino, che ci fa apparire il duca Roberto come un brigante solitario, Goffredo Malaterra spiega nei minimi dettagli come Roberto il Guiscardo abbia affrontato il problema del vettovagliamento del suo piccolo esercito. Insediatosi nella nuova roccaforte dopo aver abbandonato Scribla, dal clima troppo insalubre, Roberto con i suoi uomini si trova di fronte ad un problema estremamente grave: mancanza di viveri! Come potete immaginare non era facile trovare rifornimenti alimentari per decine di uomini, e quelle riserve di cui potevano disporre prima poi finivano. Voi direte: beh, per gente come loro era uno scherzo procurarsi il cibo, erano i vincitori! E invece trovarono, è il caso di dirlo, porte e negozi tutti chiusi. Il bello, si fa per dire, è che tutti quei vigorosi guerrieri, occupati nella conquista dei territori e nella fortificazione degli avanposti, non si fossero accorti che il cibo era finito. Chi pensò a dare la triste notizia a Roberto fu il suo dapifer, il quale, senza giri di parole, gli si rivolse in questi termini: "Domani, vossignoria e i vostri soldati che cosa mangerete? Cibo non ce n'è, ne tantomeno soldi per acquistarlo. E ammesso che ci fossero i soldi, non c'è un luogo dove trovarlo con le buone!" Non ho competenze tali per dire se le parole latine usate dal monaco sottintendano una qualche ironia, ma la presenza di un dapifer, unico in tutta la storia riguardante i fratelli Ruggero e Roberto, e la sua richiesta mi lasciano alquanto perplesso. Perchè non ci siano dubbi su quanto disse il domestico di casa Altavilla vi trascrivo il testo latino: quodam vespere dapifer, qui omni domui suae praeerat, requisivit ab ipso quid in crastinum comesturi erant ipse et milites sui: dicens se neque victum, sed neque victi pretium ad emendum habere; et si pretium haberet, nusquam, ubi cum pace adiri posset, invenire posse. La cosa è troppo interessante per essere sbrigata con una semplice traduzione. Ci troviamo di fronte ad una notizia davvero unica: Roberto aveva a San Marco una casa e una sorta di sovrintendente. Il fatto che il Guiscardo, secondo il racconto di Malaterra, abbia lasciato Scribla per costruire una nuova fortezza chiamata di San Marco (castrum, quod Sancti Marci dicitur, firmavit) contrasta con questa residenzialità completa di agi e servizi. Il Malaterra riferisce che dopo aver provveduto alla fortificazione ebbe difficoltà a rifornirla dei viveri necessari. È chiaro che l'estrema sintesi della narrazione abbrevia enormemente lo spazio temporale in cui i fatti si svolsero, ma ciò nonostante non possiamo immaginare che nel castrum Sancti Marci da lui eretto non esistesse nulla e nessuno. Il fatto che Malaterra si soffermi raramente su aspetti di vita quotidiana non significa che dietro al duce non ci fosse una piccola corte con cuochi, camerieri, maniscalchi, consiglieri e senz'altro figure femminili. La stanzialità, prima a Scribla e poi a San Marco, di tutte queste persone, tralasciando i soldati e gli esploratori, che tra poco conosceremo, non poteva svolgersi entro tende, palizzate e capanni di legno, bensì necessitava di edifici. A quanto pare il territorio era diffusamente abitato, non sempre in luoghi fortificati, ma senz'altro difeso da uomini armati, spesso in buon numero (lo vederemo tra poco). Dobbiamo, allora, dedurne che anche sulle alture esistevano edifici di vario uso e dimensione con relativi abitanti e che il Guiscardo abbia fatto di uno di questi luoghi il castrum per sè e il suo seguito. Ritorniamo al racconto e soffermiamoci un momento sulla figura del dapifer. Non è un "fodrarius" o furiere, bensì un sovrintendente al fabbisogno personale del duca. Non si trattava di un cameriere, né di un cuoco, ma di un funzionario che aveva la cassa con tutti i denari occorrenti: se neque victum, sed neque victi pretium ad emendum habere, spiega chiaramente che il dapifer non ha più disponibilità di vitto e né soldi per acquistarlo. Egli, inoltre, è perfettamente al corrente che proprietari e contadini del circondario hanno fatto sparire tutte le scorte alimentari (et si pretium haberet, nusquam, ubi cum pace adiri posset, invenire posse), dimostrando di essere ben informato sugli effetti prodotti nel raggio di varie miglia dall'arrivo in loco dei normanni. E che il luogo non fosse deserto lo dice chiaramente il Malaterra che ci spiega dove gli abitanti avessero trasferito le scorte alimentari: abstraxerant enim circummanentes ad proxima castra quaeque habebant, ne ab ipsis diriperentur, ovvero nei castra vicini per evitare che i Normanni le rubassero. Sappiamo così che al di là del castrum Sancti Marci esistevano tutt'intorno altre fortificazioni che il Guiscardo non aveva potuto o non aveva osato attaccare, e soprattutto che gli abitanti erano circummanentes rispetto ad un centro sopraelevato, preesistente all'insediamento normanno, probabilmente abbandonato per l'occasione dai suoi residenti. Il Malaterra, infatti, non accenna minimamente ad un assedio o alla conquista di un territorio. A questo punto il racconto ci riserva un'altra sorpresa e cioè che oltre ai suoi uomini il Guiscardo aveva con sè una sessantina di Sclavi. Chi fossero, da dove venissero e dove li avesse trovati non lo sappiamo, in quanto nell'intero libro di Goffredo Malaterra essi compaiono solo in quest'occasione, ovvero subito dopo la notizia del dapifer di trovarsi ... in bolletta. Anche questa notizia merita particolare attenzione. Sclavi: vari documenti ne parlano, anche di molto antecedenti il periodo dei Normanni. Erano un popolo slavo, ma nel nostro caso sono uomini così chiamati per la loro origine etnica (un po' come noi oggi continuiamo a chiamare albanesi i nostri conterranei). Dove abitavano? Un po' dovunque, ma quelli di cui parla il Malaterra abitavano qui in Calabria, una terra che, come vedremo, conoscevano alla perfezione. Roberto si rivolge a loro per sapere dove trovare rifornimenti alimentari. Gli Sclavi rispondono che conoscono un luogo oltre i monti raggiungibile attraverso un percorso molto accidentato e scosceso, abbondantemente fornito di viveri, ma molto rischioso. Scopriamo, così, che questi uomini sono dei pedites, fanti o, per usare un termine antico ma appropriato, pedoni. Sono di fatto esploratori e guide, non usati per azioni militari, ma, come vedremo, per azioni che richiedono doti particolari come muoversi nell'oscurità, essere silenziosi, preparare il terreno per un attacco. Sapevano, all'occorrenza, sottrarre cose, animali o persone in maniera furtiva e con molta probabilità non erano armati nel vero senso della parola, se non di un'asta appuntita e di qualche lama per le necessità di sopravvivenza. Indossavano abiti grossolani e un particolare tipo di calzature chiamate scarpe. Anche quest'ultimo particolare è contenuto solo nella parte del racconto che riguarda San Marco. Non sappiamo se il Guiscardo avesse trovato questi uomini in loco, a Scribla o altrove. È certo che non si trattava né di schiavi, né di prigionieri, ma di mercenari già al servizio del Bizantini. Poiché il duce normanno li definisce fidatissime guardie del corpo (tutissimi vitae meae fautores), debbo dedurne che essi fossero al suo servizio da tempo, quindi non reclutati in loco o per l'occasione dell'azione che avrebbero dovuto compiere. Ma vediamo nei dettagli come ci vengono narrati gli eventi che li riguardano. Il Guiscardo, posto di fronte all'unica possibilità prospettatagli dagli Sclavi, decide di utilizzare proprio loro per procurarsi quanto è necessario, trasformandoli da pedoni in ... predoni! E per convincerli ad una impresa dalla quale rischiavano di non tornare vivi usa all'incirca queste parole: "Mie fidatissime scorte, non vorrete che il Guiscardo e voi stessi patiate la fame. Per procurare il cibo dobbiamo sfidare la sorte anche a rischio della vita. Quante volte abbiamo sentito che gli audaci ci sono riusciti con successo, ma mai alcuno esser lodato per esser morto di fame! Andate predoni della notte! Le libagioni fanno sì che i Calabresi siano meno vigili: oggi, giorno di festa, si son dati, come usano, a banchetti e bevute. Andate avanti! Vi seguirò con soldati armati." Il Malaterra ci racconta il seguito della storia con dovizia di particolari. Roberto finge di coricarsi, ma nel pieno della notte, si alza, indossa abito e scarpe come quelli usati degli sclavi e si unisce a loro senza essere riconosciuto. Per tutto il percorso non pronuncia parola, quindi nemmeno esortazioni per non essere scoperto e anche perché era gente di cui non poteva del tutto fidarsi. Una volta giunti sul posto fanno man bassa di tutto ciò che trovano, mentre il Guiscardo saltando e agitando l'asta li sollecita ad accellerare il rientro. Però prima che faccia giorno le vittime, resesi conto della sottrazione dei loro averi, si lanciano all'inseguimento con duecento soldati per recuperare il maltolto. Il Guiscardo vedendo avvicinarsi gli inseguitori, e sentendo i suoi decisi a non farsi sottrarre la preda, si fa riconoscere dicendo: "Di persona ho partecipato alla vostra impresa!D'ora in poi i vostri rischi saranno miei. Forza e coraggio, affrontiamo i nemici! Grazie a Dio abbiamo la fortuna dalla nostra e senz'altro ne usciremo vittoriosi!" Detto questo, si lancia come una furia contro i nemici e nel combattimento, da cui esce vincitore, ne uccide molti, ne cattura gran parte e mette in fuga altri. A questo punto Malaterra ci dice che de peditibus suis equites fecit che interpreto come una promozione sul campo di quella soldataglia fino ad allora priva di mezzi e di meriti bellici. Prima di proseguire nell'esposizione dei fatti è opportuno fare una riflessione sulla natura e la funzione di questi uomini, una sessantina (usque ad sexaginta) di Sclavi. Facciamo un passo indietro, ricordando che il Guiscardo per confondersi in mezzo a loro, oltre a vili veste, copre i piedi con lo stesso tipo di calzature (scarpis) da loro usate, che non erano i calzari dei Normanni, ma quelli chiodati, o comunque rinforzati, dei fanti. Dobbiamo dedurne che le loro funzioni erano essenzialmente di perlustrazione e di guida. Il Malaterra non li chiama mai soldati e, difatti, il Guiscardo, nell'incitarli a compiere l'impresa, li rassicura dicendo che li avrebbe seguiti con i suoi soldati. Dove? Nessuna città da espugnare, bensì un luogo aperto, pieno di provviste alimentari, armi, animali e cavalcature. Quegli uomini non avvezzi alla guerra, privi probabilmente di qualsiasi arma, avevano solo il compito di rubare nottetempo mentre tutti dormivano! Altrimenti appare strano che il Guiscardo li abbia rassicurati sul pericolo di essere aggrediti, dagli stessi Sclavi paventato, dicendo loro che quella notte i Calabri dormivano profondamente per le abbondanti libagioni fatte nella ricorrenza di una certa festa. E al momento della partenza si rivolge a loro dicendo: Ite nocturni predones! Sapevano, dunque, muoversi nell'oscurit� lungo un percorso insidioso, fare un'incursione silenziosa portando o trascinando con sé pesi ingombranti. La loro vera natura si rivela nel momento in cui, accortisi di essere inseguiti da duecento armati, si esortano a vicenda decisi a non rinunciare al bottino! (socios, ne praeda privari patiantur, sese ad invicem audacter cohortari). Ed è a questo punto che Roberto decide di rivelarsi mettendosi alla loro testa e affrontando il nemico. Il risultato è una vittoria strepitosa, senza perdite e con un ulteriore bottino fatto di persone, cavalcature e armi trascinati come trofei di guerra (triumphalibus spoliis captis). E proprio a questo punto che il Malaterra inserisce quella promozione sul campo che vede gli Sclavi diventare cavalieri! Prima di passare al rientro a San Marco, che ci rivela altri aspetti estremamente interessanti, vorrei fare una riflessione sulla località in cui avvenne la razzia. Essa era lontana da San Marco, oltre alte montagne e in valli profonde. Non era un castrum nè era in qualche modo cinta da mura, palizzate o altro. Era, verosimilmente, un villaggio popoloso e ben organizzato da un punto di vista civile. Esso era raggiungibile a piedi attraverso un percorso che, per svolgersi nel corso di una notte, assieme all'azione predatoria, fa supporre una distanza non eccessiva ma comunque di decine di chilometri. Non sappiamo di quale località si tratti, ma certamente essa è una delle tante proprietà che il Guiscardo "donò" all'abbazia della Matina come riportano i documenti di cui ho ampiamente parlato nella prima puntata dell'antistoria. Ritornando al racconto, il Malaterra descrive il ritorno a casa dei vincitori con il bottino e i prigionieri (captivos secum ducens, praecedit, paucis, qui praedam post se ducant, relictis). Qui il punto di vista del racconto si sposta nella fortezza del Guiscardo, dove i suoi soldati, fattosi giorno, scorgono in lontananza quella fila di uomini avvicinarsi. Sospettando che si tratti di nemici corrono ad avvisare il duce e non trovandolo a letto lo cercano a gran voce per l'intero quartiere. Preoccupati per la sua assenza, si precipitano, comunque, fuori dalla fortezza con sprezzo del pericolo e si affrettano ad affrontare quelli che ritenevano nemici. Allora il Guiscardo, spronando il suo (!) cavallo, avanza gridando in continuazione il proprio nome. E così riconosciuto rende tutti felici per la sua presenza e per la gioia insperata. Lo scrittore mette in bocca ai cavalieri un'ammonizione rivolta al loro duce che suona pressapoco così: se hai osato tanto, non farlo più; la fortuna, che oggi ti ha arriso, domani ti si rivolge contro. Il seguito della storia è solo un accenno sull'esito della spedizione e sul futuro dei Calabresi, ma pur in estrema sintesi San Marco ne esce come un potente presidio da cui inizia il dominio normanno in Calabria. Peccato che Goffredo Malaterra, forse memore dell'abito che indossava, abbia rovinato tutto dicendo senza giri di parole che Roberto arricchì San Marco grazie al bottino e al riscatto dei prigionieri e che continuò a perseguitare i Calabresi con frequenti incursioni. Sic castrum praeda et redemptione captivorum ditans, Calabros crebris incursionibus plurimum lacessivit dice, infatti, il Malaterra a chiusura del capitolo, anticipando in qualche modo l'azione delittuosa del capitolo successivo. Alla prossima puntata dell'antistoria. San Marco Argentano, 26 gennaio 2019 Paolo Chiaselotti |
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