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DA CASTRUM A CIVITAS - SANTA MARIA
Osservando una planimetria di San Marco Argentano e percorrendone le strade ognuno può
rendersi conto di alcuni aspetti edilizi e urbanistici che connotano il nostro centro storico.
Non è facile datare edifici, strade, quartieri senza una specifica competenza e
soprattutto senza poter disporre di una documentazione adeguata.
Nel caso di San Marco, come ho già scritto in altra pagina, sappiamo con certezza che nel 1065 esistevano il vicus Prato, l'abbazia con la chiesa di Santa Maria della Matina e un mulino, altri due mulini in località imprecisate e una chiesa con casale a Santa Venere. Sappiamo ancora che nel 1088 esisteva una chiesa dedicata a San Senatore tra i torrenti Follone e Malosa, nel 1097 una chiesa di San Nicola limitrofa al 'castello' di San Marco, nel 1209 la chiesa di San Giovanni degli Amalfitani con piazza antistante e almeno tre casalini prossimi ad essa. Questo è tutto ciò sappiamo. Tuttavia, anche partendo dall'osservazione sul territorio, persone esperte e qualificate, per studi ed esperienza, possono desumere epoca ed entità di interventi di antropizzazione. Non essendo io tra queste, mi limiterò ad esporre alcune banali osservazioni sul nostro centro storico, immaginando di parlare ad alunni o a turisti ignari della nostra storia. Voglio partire dal punto più estremo, ovvero, da Santa Maria, una piccola chiesa da cui prende il nome il quartiere. Dinanzi ad essa c'è una piccola piazza e sul lato destro una stradina. Pur essendo lo stato originario dei luoghi sottostanti alterati dalla recente costruzione della strada mons. E.Castrillo e della piazzetta San Gabriele, la chiesa appare come l'estremo lembo dell'abitato. Gli edifici addossati alla chiesa e gli altri che si affacciano sulla piazza furono construiti nel secolo scorso e nel precedente, per cui possiamo immaginare questo piccolo tempietto eretto su uno sperone roccioso ancora ben visibile, distaccato dall'abitato più a monte detto Capo di Rose. Santa Maria era, dunque, una chiesetta isolata, posta all'ingresso dell'abitato. Potremmo dire che essa era 'fuori le mura', se avessimo la certezza che esse esistessero in quel luogo. Ma esistevano? Sì c'erano, e c'era anche una porta, come risulta da un documento: "Porta dell'Ilici, seu le Rose iuxta menia di essa Città". All'interno di queste mura sappiamo che si trovava il palazzo di Tommaso Santisosti con magazzini e altre case. Una via pubblica collegava la città alla sottostante zona a valle, passando sul lato sinistro della chiesa. Che la chiesa di Santa Maria, detta dell'Ilice, o come riportato in altra parte del documento, la Nova, fosse esterna al perimetro cittadino rappresentato dalla porta e dalla mura è confermato da un censo percepito dal Monastero di Santa Chiara "super quadam domu intus S. Marci in contrata dicta lo Criteo iuxta Ecclesiam Sanctae Mariae dela nova". La città finiva quindi con mura e porta a Capo di Rose (o semplicemente Rose o delle Rose) e Santa Maria dell'Ilice, o la Nova, ne restava tagliata fuori. La domanda più ovvia è la seguente: esisteva già o fu costruita dopo la nascita del suddetto quartiere? Ovvero è più antica la chiesa o l'abitato? Bella domanda, alla quale cercheremo di dare una risposta desumendola dalla più generale situazione antropica. Partiamo dall'oggi. Su un lato della strada, che scende lateralmente e sottostante alla chiesa, c'è un'icona della Vergine fatta porre nel secolo scorso dal proprietario dell'edificio costruito a ridosso dell'abside, con un saluto beneaugurale ai viandanti che entravano a San Marco. La sua collocazione trae origine dal fatto che da secoli la strada era il collegamento tra l'abitato di San Marco con il sottostante vallone dove scorre il torrente Fullone. Gli atti d'archivio del Comune riportano che la strada, oltre ad essere usata per recarsi al sottostante fiume a lavare panni o macinare grano, era soprattutto l'unica via di collegamento con le marine di ponente. Poiché nel documento sopracitato la chiesa e l'abitato entro le mura confinano con via pubblica, dobbiamo dedurre che la chiesa si trovasse su un'altura lungo un percorso che da valle portava a monte e che essa fu tagliata fuori al momento della fortificazione con mura. Un discorso analogo vale nel caso della chiesa di San Marco Evangelista, che sappiamo essere stata costruita, al di là della porta San Marco o Porta Vecchia, ma sui resti di una preesistente cappella dell'Epifania, stando a quanto afferma l'autore della Cronistoria Salvatore Cristofaro. Potremmo pensare che anche Santa Maria dell'Ilice o della Nova esistesse prima dell'edificazione delle mura e della porta, e in ogni caso per stabilirne approssimativamente una data bisognerebbe sapere quando furono costruite queste ultime. Chiunque di noi ha sentito parlare di chiese fuori le mura, come San Paolo a Roma, San Lorenzo ad Aversa (giusto per ricordare il paese di origine del nostro vescovo Riga), e questa loro caratteristica è spesso dovuta alla costruzione di edifici religiosi là dove vi erano luoghi di culto o devozione rappresentati da cippi, icone, tombe, eremi, cappelle ecc. Il fatto che nel corso di oltre un secolo la chiesa, che oggi porta il nome di Santa Maria del Carmelo, sia stata indicata come Santa Maria de Porticella (1590), Santa Maria dell'Ilice (1632), Santa Maria la Nova (1632), Santa Maria de Illirico (1665), Santa Maria de' Longobardi (1703), non aiuta a definirne un'origine, quanto, piuttosto, sembra voler celare una precedente memoria, questo almeno fino al 1665. L'attribuzione successiva che ne dà il Pacichelli nel suo volume edito nel 1703, ovvero 'dei Longobardi', compie un'inversione di marcia riportando con tale definizione, peraltro unica e sola, l'origine della chiesa ad un periodo pre-normanno. Non so dire da dove trasse la definizione 'dei Longobardi', peraltro ripresa da suor Clarice Selvaggi in un componimento poetico. Anche la definizione 'de Illirico' che troviamo nella Relazione ad Limina del 1665 del vescovo di San Marco Teodoro Fantoni ci porta a considerare la presenza di un culto cristiano d'oriente. Possiamo da questo arguire che l'origine sia antecedente alla venuta dei Normanni? Non è detto, in quanto, come sappiamo dal Malaterra, al seguito del Guiscardo c'erano sessanta Sclavi, ai quali avrebbe potuto assegnare un'area del territorio. Le ipotesi possono essere tante e tra queste anche una dipendenza di questo quartiere dalla vicina contrada di Santa Venere, alla quale era ed è tuttora collegata per vicinanza geografica e per essere stata l'unica via di accesso alle zone limitrofe di Sant'Opoli, Santo Stefano ecc. Inoltre, in una nota a margine nella Platea delle Clarisse leggiamo che la contrada detta Lo Guttario o Perizito, che sappiamo essere parte della più vasta area di Santa Venere, confina con il canonicato di Santa Maria dell'Ilice. Poiché il casale di Santa Venere fu donato dal Guiscardo all'abbazia della Matina, si può dedurre che esso appartenesse alla comunità bizantina e di conseguenza comprendesse anche la fascia territoriale in cui si trova la chiesa di Santa Maria. La poesia di suor Clarice sembrerebbe confermare questa estensione territoriale nella prima quartina ("Nel rio di Venere/ Del Longobardo/ Fiero e gagliardo/ Bevve il destrier"), là dove collega il Longobardo al torrente di Santa Venere. Il Pacichelli e suor Clarice debbono aver attinto entrambi la notizia dell'attribuzione della chiesa di Santa Maria da una fonte a suo tempo esistente, a meno che suor Clarice non abbia tratto spunto dalla notizia del Pacichelli. Tuttavia suor Clarice dice di più, ovvero parla dello stato di abbandono per lunghi anni, dovuto all'invasione di Greci e Normanni, cagion d'affanni e di terror, e che da tale degrado la sollevò "la pia, la nobile famiglia Fera", che, guarda caso fu la stessa che finanziò la nascita del convento dei Minimi di San Francesco di Paola in località Santo Stefano. Al di là dell'attribuzione storica emerge ancora una volta il legame territoriale tra Santa Maria e la donazione del Guiscardo all'abbazia, ovvero i casali di Santa Venere e Santo Stefano. Dice ancora suor Clarice che il nome dell'Ilici derivasse dalla sua condizione di abbandono, in quanto coperta di triboli e felci e dove, dobbiamo desumere esistesse un ilice, altrimenti detto elce o leccio, che diede il nome alla chiesa e alla porta della città. Riportare il tutto ai Longobardi a me sembra un'operazione di 'copertura' di qualche verità storica che traspare sempre senza mai apparire, ovvero la presenza bizantina. Sembra che San Marco, a dispetto del nome, non ne abbia voluto lasciare traccia. Spero in una prossima puntata di estendere la 'visita' in altri quartieri del centro storico. San Marco Argentano, 17 giugno 2023 Paolo Chiaselotti Notizie sugli appellativi Santa Maria della Porticciola e Santa Maria dell'Illirico tratte da "Il Sinodo di Teodoro Fantoni, Vescovo di San Marco, 12 -14 aprile 1665", di Tonino Caruso, Gangemi Editore, Roma, 2006. Altre notizie tratte da: "La Platea delle Clarisse" (https://www.sanmarcoargentano.it/ottocento/seicento/platea_int.htm) Antologia Archivio Selvaggi (https://www.accademiamediterraneaselvaggi.it/arch_selvaggi/antologia.htm) Nella panoramica in alto i quartieri di Sant'Antonio Abate e di Santa Maria. |
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