La traiettoria di un proiettile sparato da alcune decine di metri di distanza si fermò
sul corpo di una giovane salita su un albero. Il corpo, non appena raggiunto dalla
palla di fucile partita da una casa poco distante, cadde dall'albero su cui la donna
si era imprudentemente arrampicata. Queste furono le cause della sua morte.
Era il trentuno marzo del 1877.
Ho voluto raccontare così la storia di un delitto, per attenermi alle considerazioni
che a quel tempo potevano trasformare una colpa grave in una tragica casualità.
Alle ore due del pomeriggio, poco dopo che il corpo era caduto dall'albero, Serafina
morì, in una casa in via della Torre. Avrebbe
compiuto vent'anni dopo qualche mese. Il feritore, affacciato dalla finestra della sua casa
imbracciando un fucile da caccia, si chiamava Luigi e aveva da poco
compiuto tredici anni.
Nell'immediatezza dello sparo e poi per moltissimi anni un silenzio surreale avvolse
quel delitto. Due testimoni, un calzolaio e un bettoliere, vicini di casa di Serafina,
andarono a dichiararne la morte al Comune. Nessuno si preoccupò
di accertare la sua età e le furono assegnati tre anni di meno di quanti realmente ne
avesse, forse per il suo aspetto o forse nel tentativo di accreditare l'immagine di una
giovinetta immatura.
Il silenzio di quel tragico incidente fu rotto molti anni dopo dal racconto di mia
madre, che a sua volta lo aveva appreso da altri, e della cui attendibilità non
posso assolutamente dubitare visto che nello stesso momento in cui Luigi sparava,
in casa c'erano due fratelli più piccoli, Tommaso e Carlo, quest'ultimo
padre di mia madre: mio nonno.
Si parlò sempre e solo di una tragica fatalità, di un gesto imprudente
da parte di un ragazzo che vide muoversi qualcosa tra i rami e sparò verso
ciò che credeva un uccello o un animale selvatico.
In base ai racconti ho sempre creduto che l'albero fosse nell'attuale piazza San Francesco, ma dall'atto
di morte ho appreso che si trovava sul lato opposto, lungo la via della Torre, oggi via
Nelson Iacovini, in mezzo alle case e non in un luogo isolato.
Se non avessi avuto la curiosità che mi ha spinto a cercare tra i documenti d'archivio
pezzi della nostra storia locale, incluse famiglie, atti amministrativi e atti giudiziari, non mi sarei
mai imbattuto in un fascicolo conservato nell'Archivio di Stato di Cosenza riguardante un
processo a carico di Luigi C.
per ferita involontaria con conseguente
morte in offesa di Serafina C. di Mongrassano.
Grazie a questa scoperta, ho indagato sulla vita di questa giovane donna e dei suoi genitori, sul
luogo di nascita e su ogni aspetto che potesse darmi un quadro più completo
dei protagonisti di questo 'tragico incidente', come veniva definito nei racconti.
Una domanda per iscritto, inoltrata un anno prima dei fatti narrati, dal padre di Luigi, Giuseppe C.,
al sindaco del Comune per poter sistemare a proprie spese l'area antistante alla casa ed erigervi una
statua di San Francesco di Paola, testimonia che nel 1876 la casa era già costruita nella sua interezza.
Ritengo che pressappoco anche gli edifici che si affacciavano sulla strada, oggi via Vittorio Emanuele,
e sulla via della Torre fossero stati costruiti nel modo in cui oggi appaiono (forse non in tutta l'attuale altezza),
per cui l'albero doveva trovarsi in uno dei giardini o terreni appartenenti a quegli stabili.
Che ci faceva Serafina in una di quelle case, visto che la sua residenza era a Mongrassano,
dove era nata?
Serafina era orfana di entrambi i genitori. La madre era morta quando lei aveva appena quattro anni e il padre,
un bracciante originario di Castelfranco (oggi Castrolibero), risposatosi, era morto nel 1873.
È possibile, dunque, che la giovane Serafina fosse stata mandata a servizio
presso qualche famiglia di San Marco e, con molta probabilità, presso qualcuna delle famiglie
che abitava in via della Torre.
Dal racconto di mia madre, e anche di una mia zia, emergevano gli aspetti legati alla casualità,
all'incoscienza, all'imprudenza, alla fatalità; la parola omicidio non veniva mai
pronunciata e neppure presa in considerazione. Inoltre la vittima, nel racconto, non aveva nè nome
e neppure un'età approssimativa. Era soltanto una donna su un albero.
Mi sono chiesto il motivo per cui una giovane di venti anni dovesse salire su un albero in un periodo in cui non
c'erano frutti di alcun genere da raccogliere, ma non posso escludere fini diversi e tutti plausibili. Nel primo caso,
tuttavia, ritengo che la sua presenza tra i rami fosse solo una scusa inventata ad arte per accreditare un'azione non
voluta e tanto meno non premeditata da parte di Luigi. Infatti, è impossibile che alla fine di marzo vi fossero alberi
ricoperti da fogliame in quantità tale da nascondere il corpo di una persona. Di conseguenza, anche se una donna
di venti anni, non più una ragazzina, fosse salita sull'albero per motivi a noi sconosciuti, l'oscuramento di fogliame
agli inizi della primavera non avrebbe retto a nessuna prova.
Non abbiamo, quindi, alcuna certezza che la giovane si trovasse realmente su un albero e non a terra o affacciata da
qualche balcone o finestra.
Il racconto di una donna tra i rami serviva soprattutto a togliere ogni sospetto di intenzionalità accreditando la
tesi che l'omicida avesse voluto colpire un animale selvatico. Se la donna fosse stata colpita mentre era in piedi a
terra o affacciata da una finestra, la tesi di un ferimento involontario sarebbe stata difficile da sostenere e l'accusa
sarebbe stata ben più grave: ferimento volontario o addirittura omicidio.
In ogni caso, anche se fosse stata presa in considerazione la possibilità che la donna si trovasse su un
albero, il capo di imputazione sarebbe dovuto essere di omicidio, intenzionale, preterintenzionale o colposo.
La giustizia, invece, di fronte al gesto sconsiderato di un ragazzo intento a giocare con un fucile, decise di
derubricare il reato in ferita involontaria, con il paradosso che fu essa, disgraziatamente, a causare la morte della
sventurata donna!
Paolo Chiaselotti
S. Marco Argentano, 31 marzo 2024
La presenza di armi da caccia e da difesa personale incustodite, sia fucili che pistole,
era la normalità in quegli anni e fino agli anni Settanta del Novecento, quando fu imposta la custodia sotto chiave per
impedirne l'accesso e l'uso.
Ricordo che in casa
c'erano due revolver che da ragazzo maneggiavo disinvoltamente per gioco, sapendo che essi erano scarichi.
Fortunatamente solo da adulto scoprii che i proiettili di quelle antiche pistole erano le cartucce metalliche a spillo, le famose
Lefaucheux, ovvero bossoli metallici con un cilindretto che funzionava da percussore, conservate in uno scatolo nello stesso
cassetto in cui erano riposte le armi. Fino ad allora mi ero sempre chiesto a cosa potessero servire ...