CREDIDIO
L'occasione per parlare di questo cognome è data dalla nascita di due bambini
avvenuta il sette luglio in anni diversi: nel 1810 e nel 1838, una differenza generazionale
che già allora allontanava il rapporto parentale tra i due nati.
Ciò che a tutti può apparire come un fatto privo di alcun interesse,
discendenti compresi, è al contrario fonte di soddisfazione per chi si occupa
di ricerche genealogiche. Mi riferisco alla scoperta di legami e intrecci parentali
sempre più complessi e lontani nel tempo: è una sorta di gioco, un
po' come le parole incrociate, che a volte porta a rivivere storie e aspetti vari
del passato attraverso persone con nome cognome mestieri amicizie dimore botteghe.
Non potendo rivolgere alcun augurio di buona nascita a persone morte e sepolte da
oltre un secolo, prenderò spunto da quel felice evento per parlare di un
paese ricco e attivo nel passato, oggi un antico borgo normanno.
Questa premessa non è casuale nel trattare il cognome Credidio, perché,
sia per le persone interessate e sia per coloro che spesso tendono ad attribuire
la colpa dello spopolamento alle amministrazioni, la storia che mi accingo a raccontare
può essere considerata esemplare nello sviluppo e declino del nostro vissuto.
Il sette luglio 1810 nasce Antonio Maria Credidio. Sapete chi lo dichiarò?
Il nonno Domenico Credidio, un negoziante poco più che cinquantenne, che
diede le sue generalità complete, compresa la paternità -figlio di
Angelo- e precisò che il bambino era nato alle ore 16 da suo figlio Francesco
e dalla di lui moglie Anna Maria Scaramuzza nativa di Altomonte. Dalle successive
nascite sappiamo che Francesco svolse in successione l'attività di massaro,
macellaio e tavernaro, quest'ultima nel quartiere più popolato dell'epoca,
chiamato il Crité, corrispondente a quella vasta area che da via Iulia arriva
a Capo di Rosa, oggi deserta e quasi in rovina.
Due anni più tardi il nonno Domenico muore. A dichiararne la morte è
il cognato, un sarto di nome Antonio Parise: "
giorno otto aprile 1812, nel
quartiere dove abitava, il Critè, è morto Domenico Credidio, tavernaro,
marito di Rosaria Parise di anni quarantotto, figlio del fu Angelo Credidio, anch'egli
tavernaro e della fu Maria Francesca Oliveti".
Bene, fermiamoci un attimo a riflettere sulle condizioni economiche e sociali di
questa famiglia: taverna, negozio, masseria, vendita di carni e, da parte femminile,
legami parentali con sarti. Insomma un bell'intreccio di economie familiari che
consentivano un tenore di vita senz'altro agiato.
Domenico, oltre Francesco, aveva altri figli: Angelo, anch'egli massaro, sempre
domiciliato al Crité, sposato con Vincenza Martino, Gennaro, massaro come
gli altri, sposato con Anna Maria Santoro -le mogli di entrambi appartenevano a
famiglie di artigiani benestanti- e infine Raffaele, sacerdote. In conclusione:
quattro figli maschi, tutti ben sistemati, e una prospettiva di benessere da fare
invidia a molti.
Non perché io creda alla iattura, ma sta di fatto che nel volgere di tre
anni morirono tutti, Francesco e Angelo lasciando numerosa prole e le mogli in attesa
di un nascituro: Francesco e Angela saranno i figli postumi, omonimi dei rispettivi
padri.
Da allora le cose mutarono profondamente. Sarebbe troppo lungo illlustrare tutto
il percorso che porta la famiglia di Angelo a trovare la via d'uscita dalle ristrettezze
economiche in matrimoni affrettati e infine nell'emigrazione, meta le cosiddette
Americhe, che in un passaparola diventeranno l'ultima speranza per centinaia di
famiglie sammarchesi. Francesco, il nato postumo, sarà l'unico a conservare
in qualche modo le proprietà e l'attività del padre. Sposatosi con
Mariannina Candela, sorella del sacerdote e letterato Pasquale Candela, avrà
due figli: Alfonso e Luigi, medico il primo, avvocato e segretario comunale l'altro.
Nonostante il benessere economico e la posizione sociale l'assenza di matrimoni
e di nuovi legami parentali porterà all'estinzione di questo ramo nel secolo
passato. Il matrimonio non appare più come una risorsa ma come un vincolo,
almeno nell'ottica dei due professionisti, poco disposti a rinunciare ai piccoli
e grandi privilegi di cui godevano in un contesto impoverito e allascato nella sua
trama sociale.
Passiamo ora all'altra ricorrenza: la nascita di Nicoletta Credidio il 7 luglio
del 1838. C'è un qualche legame con il ceppo di cui abbiamo parlato finora?
Vediamo di scoprirlo insieme.
I genitori sono Giuseppe Credidio e Cilidea Perrone. Il padre era un falegname con
casa e bottega nel quartiere Santomarco, un tempo più esteso rispetto all'attuale
piazzetta antistante la chiesa. Dall'atto di matrimonio dei genitori ricaviamo informazioni
interessanti sulle rispettive famiglie: Giuseppe era figlio di Filippo Credidio,
un caffettiere, e di Beatrice De Marco, la sposa Maria Raffaela Celidea era figlia
di don Gaetano, notaro, e di donna Francesca Arcuri. Nello stesso atto leggiamo
che il nonno paterno dello sposo si chiamava Giuseppe Credidio. Nel 1810 moriva
Giuseppe Credidio, sposato con Costanza Pagano e genitore di un figlio, Filippo,
di anni ventitre: i genitori di Giuseppe sono Angelo e Francesca Oliveti. Insomma
abbiamo trovato che Domenico e Giuseppe erano due fratelli. Da quest'ultimo si svilupperà
quel ramo dei Credidio che tutti noi conosciamo.
Giuseppe era parrucchiere e acquavitaro, due mestieri all'apparenza inconciliabili,
ma indicativi delle novità introdotte in un piccolo paese da parte di persone
provenienti da centri costieri che avevano maggiori contatti con la capitale del
Regno delle due Sicilie, Napoli. Altrettanto valga per Filippo, un caffettiere,
ma anche speziale, che fu uno dei primi ad aprire un esercizio pubblico, in cui
oltre al caffè si potevano trovare liquori vari.
Ciò che colpisce è anche quella palese distanza sociale tra gli sposi
sopradetti -Celidea e Giuseppe- evidenziata sull'atto di matrimonio da un
don
onorifico per tutti i famigliari della sposa, figlia di notaio, fatto che ci induce
a riflettere sull'importanza che la società del tempo attribuiva alle nuove
professioni e ai mestieri che diventavano un patrimonio indiscutibile per il dignitoso
sostegno di una famiglia, tale da abbattere ogni barriera sociale. In particolare
per quanto riguarda la famiglia Credidio abbiamo trovato altri suoi legami parentali
con famiglie al cui interno vi erano notai: Arcuri e De Marco. Se riflettiamo sulle
attribuzioni dei notai (all'epoca ridotte ma pur sempre significative) nelle compravendite
e nella stipula e riscossione di prestiti e interessi, l'apparentamento era di indubbio
vantaggio alle attività economiche, ma anche viceversa, in quanto i notai
si avvalevano delle conoscenze e dei rapporti di affari dei congiunti, commercianti
o artigiani che fossero. Ritornando a Nicoletta era l'ultima nata di Giuseppe, il
primo figlio si chiamava Luigi, era falegname e si sposò con Luisa Fera,
otto anni di più, di famiglia ricca e con il
don. Ma questa volta
sull'atto di matrimonio anche nella famiglia dello sposo compare quel significante
titolo di prestigio, non per tutti ma solo per la madre che era figlia di un notaio.
La forma, però, non è più sostanza, ma solo un retaggio culturale,
che consentiva anche ad un notaio di "liberarsi" delle figlie dandole
in spose ai nuovi arrivati, non galantuomini ma produttori di nuove ricchezze. Per
quanto ad alcuni possa risultare incomprensibile un simile atteggiamento, posso
assicurarvi, e chiamo a testimonianza anche membri del ceppo di cui parliamo, che
la differenza di classe sociale continuava a perdurare nel tempo, anche tra gli
stessi coniugi con riferimento alle rispettive origini. La contesa finiva però
nel momento in cui il mestiere si trasformava in attività con bottega, apprendistato
di decine di mocciosi, aiutanti e discepoli, tutti riverentissimi verso il loro
maestro.
I racconti delle persone più anziane sulla strada dei "forgiari"
parlano di un susseguirsi di botteghe o officine, in maggioranza fabbri-ferrai,
lattonieri e falegnami, considerati benestanti e chiamati da tutti "mastri".
Erano gli epigoni dei mastri di cui ho parlato prima, quando l'economia si basava
realmente e unicamente sulla loro produzione, e all'epoca dei racconti -parlo di
oltre cinquant'anni fa- quell'economia era già in fase di declino: nel volgere
di pochi anni tutte le attività chiusero, lasciando solo, per la curiosità
dei turisti, a testimoniare il passato, un anziano maniscalco, i suoi attrezzi e
una bottega annerita dal fumo.
Torniamo a Luigi e Luisa Fera, perché la loro discendenza ci dà un
quadro particolareggiato dei profondi mutamenti che porteranno all'epilogo sopra
accennato: la fine di ogni attività artigianale.
La coppia ebbe sette figli. Noi ci occuperemo solo di due di loro, che ebbero prole
e discendenza fino ai giorni nostri, ricordando solo che un figlio si fece o, come
si diceva più comunemente, fu fatto prete.
Uno dei figli, Francesco, sposò una gentildonna di Rota Greca e dagli atti
di nascita dei figli leggiamo che egli era proprietario e che emigrò per
un certo periodo in Brasile. Abitava nel quartiere Critè che allora era stato
suddiviso in strade, meridionale quella della sua abitazione o, nella denominazione
rionale, Capo le Rose. L'emigrazione di Francesco è il preludio di una divisione
familiare che continuerà nei discendenti: proprietà e casa non erano
sufficienti a soddisfare le esigenze familiari dei vari figli. Uno rimase, Valentino,
con casa, un pezzo di terra e un "don", pomposo quanto inutile, a lottare
con le avversità della vita, riuscendo con stenti a far laureare l'unico
figlio, morto giovane e senza prole. Il maggiore, Luigi, portatore dell'identità
del nonno, emigrò nel primo dopoguerra nell'altra Italia, dove pare vivano
suoi discendenti, una generazione di professionisti.
Solo il figlio Gaetano erediterà l'attività del padre Luigi, bottega,
clienti, attrezzatura e discepoli, in anni che vedevano crescere l'emigrazione e
diminuire ricchezza e produzione di beni. Siamo alla fine dell'Ottocento e il matrimonio
non rappresenta più un'opportunità ma un rischio di "impresa".
Molti manufatti, con l'avvento della nuova linea ferroviaria e della rete stradale,
arrivano dalle industrie del nord, l'artigiano che produceva tutto di tutto vede
assottigliarsi sempre di più il campo della produzione, che spesso diventa
specializzata e in forte competizione: carrai, bottai, ebanisti. Chi sapeva fare
poteva contare solo sulle proprie mani e sulla divina provvidenza, rivolgendosi
al Signore e all'occorenza a chi lo rappresentava su questa terra.
La chiesa contribuirà notevolmente con la committenza di lavori vari ad alleviare
i disagi di varie categorie di artigiani, assieme a quelle poche famiglie nobili,
borghesi e popolane che continuavano a rivolgersi ai mastri di bottega per le necessità
quotidiane.
Mastro Raffaele Credidio con perseveranza, capacità e orgoglio cercherà
di trasmettere ai suoi figli, pur tra tante difficoltà economiche, politiche
e sociali, il suo mestiere, ma di fatto solo uno continuerà l'attività
paterna, Luigi.
Con lui finisce l'epoca del saper fare e subentra quella del sapere e delle professioni.
Non è una sconfitta, nè un rimpianto: è solo una constatazione,
che ci deve far riflettere sui modi in cui si organizzava la società del
tempo, non per ripeterli, né per esaltarli, ma solo per conoscere una storia
che ci riguarda da vicino.
I bravi artigiani esistono sempre e continueranno ad esistere, ma quello che abbiamo
letto riguarda produzione, economia, rapporti sociali, cultura. Guardando a questi
fattori nell'attuale momento storico possiamo dire che la trasmissione del saper
fare e del conseguente sapere sta diventando quasi esclusivo appannaggio della rete
informatica, che la produzione di ogni bene è relegata in posti sempre più
lontani, che i rapporti sociali intercorrono per la maggioranza attraverso i cosiddetti
social, che l'economia si basa sempre più su redditi di sussistenza e, da domani,
di cittadinanza, che il commercio esula sempre più da luoghi fisici e si
concentra nei monopoli delle vendite on-line, che siamo imbevuti di pubblicità
e di droghe di ogni genere, che pensiamo di aver compreso tutto e non abbiamo capito
un cazzo ... Potrei continuare, ma divagherei troppo.
Nella foto in alto "mastru Rafele Crediddiu"
San Marco Argentano, 7 luglio 2018
Paolo Chiaselotti