La storia che sto per narrare mi ricorda un breve racconto di Gustave Flaubert, "Un cuore semplice". Questo racconto parla di una donna di umili origini che si lega con la massima fedeltà - dedicandole la propria vita - alla sua "padrona" (quella che oggi chiameremmo la sua datrice di lavoro). Non ho l'arroganza di paragonarmi a questo grande autore, ma non nascondo che mentre lo leggevo, mi s'imponevano delle sovrapposizioni tra finzione narrativa e una realtà che ho vissuto molto da vicino. La donna di cui voglio parlare ha rappresentato un punto fermo nella mia vita e ciò mi ha creato non poche perplessità, prima di raccontarne le vicende, nel timore che potessi inoltrarmi in territori, per così dire, troppo intimi. Tuttavia, ricordarla ritengo sia un affettuoso omaggio alla memoria di una persona che molti sammarchesi non ricordano già più. Men che meno le nuove generazioni. Elvira Madurro, nata a Cervicati nel 1922, apparteneva a una famiglia molto povera di contadini. Sin da piccola aveva dimostrato un'intelligenza brillante. Virtù, questa, che non poteva avere la sua legittima espressione in un ambiente scarso di stimoli. Frequentò le scuole, però, con ottimi risultati, fino alla terza elementare. Nonostante la sua formazione fosse infarcita della retorica propria della cultura fascista, era una bambina che si faceva notare e che conquistava, con le sue intuizioni, le maestre che si erano susseguite. Come ho detto, i tempi erano molto duri, soprattutto per i lavoratori della terra, trascurati e avviliti da un regime che mirava a consolidare le stratificazioni tra le classi sociali, anziché indebolirne le differenze. Basti pensare che suo padre, con un atto di disperazione, ma anche di grande amore, vendette una pecora (che per lui era fonte di reddito), purché la figlia potesse conseguire almeno la terza elementare. Elvira era una ragazza allegra, amava la natura e aiutava volentieri suo padre nel lavoro dei campi, nonostante il senso di delusione che l'abbandono forzato della scuola le aveva provocato. Dopo qualche tempo, sua mamma si ammalò. C'era bisogno di cure e di assistenza e, a quei tempi, il lavorare nei campi era meno redditizio che prestare servizio presso famiglie benestanti. Nella vicina S. Marco, più che a Cervicati, circolava una discreta ricchezza, grazie anche ad alcune attività commerciali che si erano frattanto sviluppate. In particolare, si era affermata la Ditta Moschino che vantava natali antichi, risalenti, addirittura agli ultimi decenni del secolo precedente. Su richiesta della signora Angelina Gaudio (mia bisnonna), moglie di Salvatore Di Cianni, titolare della ditta, Elvira giunse a San Marco per prestare il suo servizio come domestica. Donna Angelina era una persona austera, algida e molto esigente con le sue collaboratrici. Intransigente negli ordini che impartiva, pretendeva da loro la massima efficienza. A quei tempi era molto radicato presso le classi agiate il concetto di superiorità naturale nei confronti dei propri subalterni, cui venivano riconosciuti solo i diritti necessari alla mera sopravvivenza. Senza alcuna considerazione dei bisogni affettivi e di arricchimento dell'anima. A Elvira, infatti, veniva negata la lettura di libri che non fossero raccolte di preci o periodici dedicati ai santi e alla Chiesa. Se da un lato, questo contribuì alla formazione religiosa di Elvira, dall'altro, però, non esaurì né frenò la sua sete di conoscenze e di piacevoli letture. A tal proposito, mi viene in mente un aneddoto che mi raccontava. Il rigore della mia bisnonna Angelina era tale che i suoi figli, Ernesto ed Emilio Di Cianni (rispettivamente mio nonno materno e mio prozio), le prestavano di nascosto e con la massima circospezione, i libri di Dostojevski e di Tolstoj. La cultura, si sa, è sempre stata rivoluzionaria. Era consigliabile che alla bimba-domestica non venissero grilli per la testa. Nella nuova famiglia, Elvira scopriva un mondo che le piaceva e di cui apprezzava ogni aspetto. Certo, ne fruiva solo indirettamente e vi partecipava nel ruolo di comparsa o di aiutante di protagonisti più fortunati di lei. Vedeva i suoi coetanei (i nipoti di donna Angelina) giocare, crescere, leggere, studiare, suonare il pianoforte, attrezzarsi e prepararsi alla vita che fuori li avrebbe attesi vincenti. E lo faceva da semplice spettatrice. Ma senza crucci o invidie o risentimenti. Riusciva quasi a gioirne, tanto che lentamente maturò in lei l'idea secondo la quale esistono al mondo delle naturali differenze che, sancite dalla nascita, segnano irrevocabilmente il percorso di vita di ciascuno. "Le dita della mano non sono uguali" mi avrebbe ripetuto tutte le volte che l'avrei invitata a ribellarsi a quel senso di subalternità che lei recava con sè, nonostante tutto, con leggerezza, e che mi avrebbe fatto stringere tante volte il cuore. Elvira prestò assistenza alla signora Gaudio con serietà e dedizione fino alla fine. Quando quest'ultima morì, la giovane si trasferì nella casa di mio nonno materno, Ernesto Di Cianni, che aveva ereditato insieme a suo fratello la ditta di famiglia. La signora Maria Credidio, moglie di mio nonno, pur disponendo già di una cospicua servitù, non esitò ad accogliere nella sua casa, a pieno servizio, Elvira, per l'efficienza, la fedeltà e la discrezione dimostrate. Erano queste - secondo le ricche famiglie che davano lavoro alle giovani donne del popolo - doti rare in una cameriera e ancor più raro era il fatto che si combinassero tutte insieme in una sola persona. Ciò naturalmente le conferì uno speciale ruolo di prestigio e di fiducia rispetto alle altre domestiche. Partecipava, sia pure da subalterna, alla vita di famiglia. Condivideva con le figlie della signora Maria (mia madre e le mie zie) speranze, progetti, illusioni, palpitava e gioiva con loro, esultava di fronte ai successi, pur sapendo, però, che quelle erano emozioni prese a prestito. Erano emozioni che duravano il tempo di un racconto o l'ansia di un'attesa di quelle ragazze assai più fortunate. Ma a lei bastavano. Non si può dire che la signora Maria e il Cavalier Ernesto la trattassero male. Anzi. Le erano sinceramente affezionati. Tuttavia, la magnanimità e la clemenza sul lavoro non hanno niente a che vedere con il soddisfacimento dei bisogni affettivi: c'erano dei confini oltre i quali non si poteva e non si doveva andare. Elvira questo lo sapeva e sapeva stare al suo posto, sublimando con la fede in Dio quella tensione all'amore che è in ognuno di noi. Condizione, questa, che l'aiutò non poco a placare le sue legittime angosce in tempi di guerra. La sua religiosità si rafforzava col passare del tempo ed aveva una connotazione gioiosa che non aveva niente a che vedere con quella religiosità, allora molto diffusa, intrisa di paure, di superstizione, di terrore. Certo, non si poteva pretendere (parliamo dei primi anni cinquanta) che tale spirito non si accompagnasse al senso del peccato e a tutte quelle peculiarità (la privazione, il sacrificio, la rinuncia) che hanno da sempre contraddistinto il cattolicesimo e fanno parte del suo armamentario. In ogni caso, in Elvira, la fede in Dio non si accompagnò mai ai concetti di morte e di giudizio divino. Pur rispettosa delle ferree regole confessionali, non ne era, per così dire, ossessionata. Più tardi, ho avuto modo di sperimentare questa sua intensa, serena, quasi immanente religiosità che ha rappresentato per me un forte modello. Senz'altro positivo. Ed ho sperimentato, per altre vie, anche ciò che mi ha fatto allontanare dal cattolicesimo, che è proprio quel lugubre integralismo che ha lo scopo di tenere sotto controllo le masse, lasciandole in uno stato di perpetua soggezione. I tempi sono cambiati e talvolta mi soffermo a constatare come questo approccio si sia evoluto, ma il mio ricordo, se non fosse stato per Elvira che ne aveva addolcito gli aspetti più traumatici, non è dei migliori. Elvira, come ho già detto, era stata costretta a interrompere bruscamente gli studi e, a causa dello stato di domestica che ormai si trovava cucito addosso, non aspirava a una sua vita sociale autonoma. Così come si era venuta col tempo rafforzando in lei l'idea secondo la quale anche il matrimonio non doveva rientrare nel novero delle sue aspirazioni. Viveva all'ombra di questa ricca e generosa famiglia, tanto che era stato attribuito anche a lei il soprannome di "Moschino", che era appunto il nome della ditta di mio nonno. La vita religiosa non era per lei solo fonte di ricchezza spirituale e di compensazione di bisogni affettivi. Ben presto, grazie alle sue doti organizzative e alla sua intelligenza brillante, conquistò, all'interno della gerarchia cattolica, ancorché da laica, dei ruoli di prestigio. Oltre che fare la catechista, era anche responsabile diocesana. Ora, non so ben dire in che cosa consistesse questo ruolo. So solo che svolgeva una funzione di coordinamento della diocesi S. Marco - Scalea nell'organizzazione di eventi, pellegrinaggi, conferenze, incontri ecumenici. E questo ruolo la portava ad avere contatti con un mondo, all'interno del quale era finalmente Elvira Madurro e non "Elvira dei Moschino". All'interno di questa organizzazione era molto apprezzata, ragione per la quale ricevette non pochi riconoscimenti. La sua fedeltà alla famiglia Di Cianni restava però immutata. Intanto, i figli del cavaliere e della signora Maria cominciavano a convolare a giuste nozze. In particolare, ad Angelina, mia madre, che era la primogenita, giovane maestra presso la scuola elementare di Iotta, per il matrimonio, mia nonna volle "dare in regalo" Elvira. Le ragazze di buona famiglia, a quei tempi, potendo godere dei servigi di una corte di famuli e domestici, erano dedite più che altro ad arti nobili, come il ricamo, il pianoforte, l'uncinetto, il disegno e, naturalmente, gli studi, per lo più classici, linguistici o magistrali. Un aiuto efficiente come Elvira sarebbe stato per mia madre una manna caduta dal cielo. Elvira, dal canto suo, era ben lieta di questo cambiamento: aveva sentito parlar bene di mio padre (l'uomo a cui mia madre sarebbe andata in sposa): un uomo, colto, brillante e, a modo suo moderno, molto liberale e illuminato nei confronti della gente umile. La cosa si metteva bene. Certo, ci sarebbe stato da lavorare perché mio padre, il professor Martino, si portava in dote una coppia di anziani genitori e una vecchia zia, ma vuoi mettere la gioia di crescere i bambini che sicuramente sarebbero arrivati? Vuoi mettere il piacere, che sicuramente le avrebbero concesso, di accudirli e di insegnare loro a scoprire il mondo? Così fu, infatti. Elvira (che intanto aveva assunto il patronimico di Martino) fu per noi (per me e per mia sorella) un insostituibile punto di riferimento. Percepivamo in lei la solidità di chi detiene l'organizzazione della casa, l'esercizio del divieto e della ricompensa, l'intransigenza paterna, il nutrimento materno del corpo e dell'anima. E ancora: l'attenzione ai nostri successi, l'ansia per le nostre scelte, l'angoscia per i nostri errori e per le prime cocenti delusioni. Era la nostra fonte primaria di contenimento. In qualche modo fu costretta lentamente a sostituirsi ai nostri genitori: mio padre morì giovanissimo e mia madre, instancabile insegnante a tempo pieno, poté pienamente contare su di lei nella cura delle sue bambine. Bambine che, nel diventare donne, col cuore colmo di gratitudine si rendevano piano piano conto dello strazio vissuto da questa donna e del suo bisogno di sublimare il proprio potenziale affettivo con quelle che erano per lei delle figlie. Che l'avrebbero poi ricompensata con il loro infinito affetto. Sin da piccole, non accettavamo (mia sorella ed io) la deferenza con cui si rivolgeva ai miei genitori. Ma lei non sembrava turbata da queste nostre osservazioni e tirava fuori le sue teorie circa le naturali diseguaglianze tra gli uomini. E proprio per questo, pretendeva da parte nostra, una strenua difesa del rango sociale cui, secondo lei, appartenevamo, adducendo il famoso adagio, molto diffuso a quei tempi: "miscati 'cchi mìegli i tia e facci i spisi", che viene a significare "frequenta coloro i quali, nella gerarchia sociale, occupano una posizione superiore alla tua, malgrado ciò possa procurarti qualche frustrazione". Era un modo, il suo, di sublimare quell'emancipazione che le era stata negata, e proiettava su di noi quei sogni che non aveva confessato neanche a se stessa. Eravamo le figlie che non aveva mai avuto e ci amava con tutta se stessa. E noi la ricambiavamo di un sentimento forte e potente e, nello stesso tempo disperato, perché non ratificato da un vincolo di sangue. Nonostante l'amassimo come una madre, era pur sempre un'estranea e temevamo che tale condizione potesse prima o poi portarcela via. Era una madre - diremmo oggi - "precaria". E questa precarietà era per noi fonte di angoscia. Solo più tardi avremmo compreso che l'amore non è solo un moto delle viscere. Elvira vegliò sulla nostra infanzia e sulla nostra adolescenza, partecipando, con l'orgoglio e le ansie di una madre, alle nostre vicissitudini. E anche quando, ormai adulte, facemmo le nostre scelte, continuò a regalarci la sua silenziosa e rassicurante presenza, nella serena consapevolezza del distacco fisiologico che, prima o poi,tra genitori e figli viene a crearsi. Mia sorella ed io andammo a vivere in un'altra città e, nonostante fosse costantemente partecipe della nostra vita, cominciò a prendersi cura di mia madre con assoluta devozione. Non che ce ne fosse bisogno sul piano fisico. Mia madre godeva di ottima salute. Lei ed Elvira erano quasi coetanee. Ma era Elvira la più forte, la più determinata, la più volitiva. E, benché ne fosse consapevole non cercò mai di trarre un tornaconto da questa posizione di privilegio. Anzi, mantenne sino alla fine, un atteggiamento di subordinazione verso quella che riteneva per natura una sua superiore. Che poi era anche la sua datrice di lavoro. Vissero in simbiosi per circa vent'anni in una sorta di strano equilibrio che si fondava soprattutto sulla capacità, da parte di Elvira, di dare. Se chiudo gli occhi risento i sui bianchi silenzi, i suoi naturali compromessi, la sua avvolgente dedizione verso gli altri, i suoi sorrisi, il suo canto gioioso e la sua ineguagliabile capacità di rassicurare mia madre nei momenti più difficili. E di rassicurare tutti noi. Ricordo le accoglienze festose che ci riservava quando tornavamo da Milano e la sontuosa allegria dei suoi pranzi di benvenuto che trasudavano un calore e una forza che andavano oltre la squisitezza delle portate. Mantenne fino alla fine queste caratteristiche che furono ricompensate, negli ultimi anni, col dono insperato di un bambino, mio figlio, che le diede la gioia di chiamarla "nonna". "Questo regalo" mi diceva "mi farà chiudere gli occhi in pace col mondo". Visse con poco, si accontentò di poco e gioì con poco. Si ricavò delle piccole gocce da quell'oceano di doni che seppe dare a tutti quelli che ebbero la fortuna di incontrarla. Se ne andò, come era sempre vissuta, in punta di piedi, tredici anni fa, dopo una breve ma straziante sofferenza. Il vuoto che lasciò in noi fu ed è incolmabile. Ancora più forte è, tuttavia, il senso di pienezza che l'insegnamento di questa vita straordinaria ci ha lasciato. Un insegnamento intriso di saggezza, sensibilità, generosità, pazienza, umiltà, lucida intelligenza. Il regalo della sua vita, insomma, è stato più forte della morte. Non voglio fare la retorica delle "donne di una volta". Era raro anche allora incontrare persone così speciali. E - sono certa - ce ne saranno anche adesso. Elvira non era un'eroina né una santa. Era solo immensamente generosa e non aveva la percezione di quel sentimento che a volte ci aiuta a vivere meglio: l'egoismo. A volte mi faceva rabbia il suo eccessivo altruismo, ma non si può dire che questo non fosse per lei fonte di felicità. Personalmente, mi ritengo fortunata che Elvira abbia segnato in maniera così profonda la mia esistenza. Ho cercato in vari modi, in vita, di dirle grazie. Non l'ho fatto mai abbastanza e me ne duole. Ho qualche dubbio sul mondo ultraterreno. Sinceramente, non so se c'è un "lassù" dal quale Elvira mi possa sorridere (volesse il cielo!). Non so neanche se questo scritto aiuterà a placare la mia ansia, ma sono sicura che l'aver dato voce a una riconoscenza lunga una vita darà un maggiore pace alla mia anima. Annalisa Martino La foto, in cui compare Elvira al centro con abito grigio, fu scattata a Roma il 25 giugno 1975, anno del Giubileo. Vedi anche il libro dell'autrice "CRIADA", EDIZIONI ASTRAGALO |
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